Giulio Cesare una volta fu visto piangere di fronte a una statua di Alessandro Magno; alla domanda sul perché piangesse rispose: «Alla mia età Alessandro era padrone del mondo, e io non ho fatto nulla». È una leggenda, naturalmente, fra le molte che circolavano nel Medioevo a proposito del grande conquistatore; e al pari di tante leggende ci dice qualcosa di importante: in questo caso, mostra la centralità delle figura di Alessandro, pietra di paragone, per epoche e contesti culturali differenti, dell’idea di regalità, di grandezza, di gusto dell’avventura, del genio e della follia combinate, della hybris smisurata.

Oltre la storia

«Tutti coloro che scrissero di Alessandro preferirono il meraviglioso al vero», affermava il geografo Strabone nel I secolo a.C.. Difatti il condottiero macedone, morto nel 323 a.C., era divenuto una leggenda mentre ancora era in vita. Alessandro, che non è chiaro se e quanto considerasse se stesso «greco», mentre i greci lo ritenevano un barbaro, partì alla conquista dell’Egitto e della Persia: ma, allievo di Aristotele, considerava al tempo stesso con grande rispetto e ammirazione la tradizione sia egizia sia persiana della «monarchia sacra» (per quanto la basi della sacralità della funzione regia fossero, in Egitto e in Persia, ben diverse).
Nel III secolo d.C. venne composto in greco il Romanzo di Alessandro attribuito al cosiddetto pseudo-Callistene, una composizione d’ambiente alessandrino, che costituì la base per le successive affabulazioni medievali. Venne infatti tradotto in latino, siriaco, slavo, persiano e arabo: quest’ultima versione costituì probabilmente la principale fonte per le citazioni di Alessandro nel Corano. Il Romanzo appare come un’opera eterogenea. Basato su materiale sia storico sia fantastico, presenta elementi tanto documentati quanto fittizi, derivati dalla trasmissione orale formatasi dopo la morte del sovrano. Riferisce di una scelta sulla quale tutti gli storici posteriori hanno insistito: la volontà del grande conquistatore di governare popoli differenti tra loro senza per questo pretendere che l’uno prevalesse sull’altro e ne cancellasse o ne inquinasse l’identità. Asia ed Europa, Oriente e Occidente non erano per il grande conquistatore realtà nemiche e contrapposte, bensì componenti di una sola grande civiltà eurasiatico-mediterranea fatta di molte lingue e di molte culture, ma avviata a vivere all’interno di una sola, articolata compagine. Non per niente il sogno di Alessandro, almeno così come ci è stato tramandato, sarebbe più tardi stato ripreso, a Roma, dai membri del «circolo degli Scipioni», da Mario, da Cesare, dalla cultura detta «alessandrina» e dalla tradizione unificatrice e armonizzatrice imperiale, fatta propria successivamente anche dalla Chiesa romana.

Il profeta dell’Età di Mezzo

Spesso la linea di demarcazione tra storia e leggenda, nella figura di Alessandro, non è facilmente definibile. Molti eventi sono storicamente distorti, e così Alessandro, prima di procedere alla conquista dell’impero persiano, si sposta in Sicilia e in Africa dove riceve ambascerie di sottomissione da parte di romani e cartaginesi. Anche nel medioevo, la figura di Alessandro conobbe un favore e un interesse eccezionali, venendo rielaborata in romanzi scritti nelle differenti lingue volgari. Il condottiero divenne il prototipo dell’eroe universale, del sovrano conquistatore dell’antichità. Avido di conoscenza e di conquista, ricco di aspetti molteplici e contrastanti, Alessandro fu il modello per numerosi sovrani. Spesso era assimilato ad Ulisse, desideroso di spingersi oltre il mondo conosciuto. Secondo una storia avrebbe aggiogato al suo carro due grifoni per ascendere sino alle stelle; mentre un’altra racconta di una sua discesa negli abissi marini, chiuso in una sorta di batiscafo di cristallo.
Dalla Germania del XII secolo proviene, ad esempio, l’Alexanderlied («Canzone di Alessandro») pubblicato, in traduzione italiana con testo originale a fronte da Adele Cipolla (Pfaffe Lambrecht Alexanderlied, a cura di Adele Cipolla, Carocci, pp. 208, euro 25), nella Biblioteca Medievale di Mario Mancini, che a sua volta sul Romanzo d’Alessandro ha scritto in passato pagine importanti. Il testo è attribuito allo pfaffe Lambrecht, autore noto per un altro solo testo, il Tobias, ispirato all’Antico Testamento; pfaffe è termine che indicava un autore dotto, che aveva ricevuto un’istruzione formale, e dunque probabilmente un chierico: segno che la fama di Alessandro stregava ogni ordine sociale. Nell’Alexanderlied il protagonista è un eroe in formazione: affascinante «uomo dei portenti» (wunderlich), la sua potenza è tuttavia feroce e priva di regole. L’adesione al modello feudale del compagnonaggio, della cura per i suoi uomini, prima sacrificati senza remore, è ciò che lo eleva al grado di eroe a tutto tondo. Certamente una parabola atta all’educazione del ceto cavalleresco, tipica dell’epoca cui il testo appartiene.
Il XII secolo è, infatti, centrale nella maturazione di una nuova coscienza dell’ordine cavalleresco, dello stemperarsi dei caratteri originari delle culture germaniche, influenzate dai nomadi delle steppe eurasiatiche, che lo avevano caratterizzato nei secoli altomedievali. L’influenza della Chiesa romana, del mondo monastico al quale lo stesso Lambrecht potrebb’essere appartenuto, giocò in questo processo un ruolo essenziale. È quanto chiarisce Franco Cardini nel suo Alle radici della cavalleria medievale, uscito originariamente nel 1981 e oggi ripubblicato con una prefazione di Alessandro Barbero e una lunga postfazione dell’autore (Il Mulino, pp. 672 pp., euro 32).

Nuove strategie coloniali

Il libro è ormai un classico, per quanto originariamente controverso, come si legge nelle pagine di aggiornamento: ma è un testo che, sebbene molto sia stato scritto sull’argomento negli ultimi decenni, non è invecchiato, anzi per certi versi risuona più attuale di un tempo, dal momento che gli interessi eurasiatici di Cardini, che spiega il collegamento (militare, culturale, sacrale) tra cavalieri nomadi dell’Asia e milizie cristiane occidentali, sono oggi quasi unanimemente considerati centrali, e in pochi guardano con sospetto all’ipotesi che molti tratti della cultura europea abbiano un debito di riconoscenza profondo con il mondo asiatico. Il sogno di Alessandro, quello della fusione fra Oriente e Occidente, vive insomma anche in queste pagine, che è bello avere nuovamente a disposizione in un’edizione di pregio.
Alessandro, che conquistò tanta parte del mondo allora conosciuto, e che a Oriente giunse fino al nord dell’attuale Pakistan, passò intorno alle montagne dell’Afghanistan senza conquistarle. Chissà se l’avevano avvertito della difficoltà di espugnare quelle roccaforti naturali, di venire a capo di un popolo indomito e fiero della propria indipendenza. Anche i mongoli fra Due e Trecento avrebbero infatti preferito girargli intorno, considerandoli al più tributari, ma soprattutto tenendosene alla larga. Sarebbero stati meno saggi, oltre duemila anni più tardi, i nuovi imperi occidentali, quelli che dall’Ottocento a oggi hanno condotto e conducono una guerra spietata per il controllo di quest’area.
Il «grande gioco» reso celebre da Kipling in Kim e ne L’uomo che volle farsi re dà oggi il titolo a un bel libro di Eugenio Di Rienzo (Afghanistan, il Grande Gioco. 1914-1947, Salerno editrice, pp.160, euro 12), che ripercorre l’intreccio di interessi che hanno condotto questo paese apparentemente remoto a essere al centro dei giochi strategici. Inizialmente, si trattava della corsa all’accaparramento coloniale dell’Asia, che gli inglesi avevano intrapreso dalla fine del Settecento a partire dall’India, e i russi più o meno nello stesso periodo a partire dal Caucaso e dalla Siberia. Lo scontro tra le due superpotenze avrebbe avuto ripercussioni in tutta l’area, senza portare alla sottomissione dei pashtun afghani.
Negli ultimi decenni del Novecento, la scoperta delle risorse energetiche nella zona ha rinverdito il grande gioco, rendendolo più spietato e mortifero. La Russia prima, gli Stati Uniti e la loro «coalizione» poi ne hanno fatto le spese, allo stesso tempo seminando in Afghanistan distruzioni impensabili ai tempi di Kipling. Non c’è più spazio per il senso dell’avventura e il romanticismo di Kim, ai nostri giorni, e lo stesso Di Rienzo preferisce fermarsi alle soglie degli sviluppi più recenti, quelli post-2001. Ma la lettura è essenziale per comprendere la nostra contemporaneità e non farsi incantare dalle sirene dell’«esportazione della democrazia» e dei «diritti umani».