Il 1969 rappresenta per Cinema&Film e Ombre Rosse un anno decisivo, spartiacque tra l’esplosione della cinefilia e la sua fine. Non a caso la prima rivista — nata a Roma nel ’66 da una scissione di Filmcritica — interrompe definitivamente la sua attività nel ’70, la seconda — nata a Torino un anno più tardi, nel ’67, intorno al Centro Universitario Cinematografico — vira, sempre nel ’70, verso un interesse puramente politico.
Nel rifiuto di «fare della critica cinematografica un mestiere», i collaboratori di entrambe le riviste riconoscono alla figura del critico una responsabilità di tipo etico, atta a sfociare in una volontà di intervento direttamente dentro gli avvenimenti politici del tempo. Fuggono dunque la chiusura del «realismo critico» (quello di Cinema Nuovo) in nome di un’apertura che doni al film la possibilità di essere altro da sé.

La loro è una critica connotata da un furore che si scaglia contro i discorsi vuoti dei cinefili, il loro inspiegabile scollamento tra il «parlare-cinema» e il «pensare-cinema», in nome di una dedizione che corpo ed anima vuole darsi ad un oggetto scelto, decostruito, su cui esercitare un pensiero. Ecco perché la selettività viene esibita con sfrontatezza, in un gusto condiviso che finita la Nouvelle Vague, presa coscienza della crisi del grande cinema hollywoodiano, si volge al nuovo cinema contemporaneo (il cinema dell’est, il New American Cinema, il cinema del terzo mondo e in particolare quello latino-americano).

Senza dimenticare l’appoggio ad iniziative nazionali che sostengono i giovani autori e i film di difficile distribuzione: il Nuovo Cinema di Pesaro, Filmstudio 70 a Roma. La cosiddetta «politica degli autori» viene combattuta da un movimento intenzionato a posizionarsi più a sinistra della sinistra del Pci, deciso a «cambiare il mondo» attraverso il cinema e non a prescindere da esso. Con una differenza: se Ombre Rosse cerca l’«altro» del cinema nella realtà storica contemporanea, in un intervento diretto del mezzo cinematografico nel clima dell’autunno caldo, Cinema&Film lo ritrova all’interno degli oggetti-film, e precisamente nel linguaggio che essi assumono e trasmettono al discorso critico che sceglie di vestirli.

Ombre rosse nasce come rivista militante che vuole essere intervento prima che atto critico, in diretta connessione con la lotta studentesca e operaia. Il film viene concepito come prodotto ideologico dell’industria culturale da volgere a vantaggio e difesa di un progetto di cinema politico. Un nuovo cantiere aperto agli autodidatti, ai collettivi studenteschi, in un assoluto abbandono della devozione per i «maestri» del cinema e nell’utopia di un possibile cinema della «sottocultura», o al massimo un cinema autoriale che ben descriva la negazione della classe borghese (Welles, Losey, Buñuel) o denunci apertamente il proprio tempo (Bellocchio, Ferreri, Lattuada). Cinema&Film al contrario supera il cinema per rimanervi più profondamente dentro, misurandolo con i nuovi strumenti concettuali di derivazione filosofico-analitica come la linguistica, la semiotica (Metz, Barthes, Jakobson), la psicoanalisi.

Il suo gruppo vede la critica come urgente «propagazione della differenza», rischiando di essere accusato di tecnicismo ma nella ferma convinzione che l’arte cinematografica vada collocata nel campo complessivo della cultura. Ha come compagni di strada i registi del cosiddetto «nuovo cinema italiano» (Bertolucci, Ferreri, Bellocchio, Pasolini, Bene, Taviani, Ponzi, Olmi), a cui dal ‘69 in poi dedica una rubrica, cercando nelle opere di questi autori una tensione che, entro l’«altrove» del prodotto artistico, si attivi tra la dimensione etica della rivoluzione e quella estetica del linguaggio.

La forza maggiore di queste riviste è stata dunque quella di legarsi a un oggetto e saper evadere dalla sua sostanza materica, a partire dalla sua forma rivoluzionante (C&F) o dal suo valore d’uso per una possibile rivoluzione (OR). Oggetto di destrutturazione ideologica o mezzo di lotta, il film viene visto come «canto e strumento»: entità conchiusa e autenticamente politica nella sua essenza di progetto (C&F); fugace trapasso in una realtà lacerata da testimoniare e di cui chiarire i processi interni (OR). Per l’una e per l’altra, composizione di immagini che per sua natura invoca un’assenza che si è chiamati a colmare, «avventura di luce» aperta sull’altro e proiettata verso un rivoluzionario oltre.