In un momento di pausa, prima dell’incontro romano che si è tenuto a Villa Medici nell’ambito de I giovedì della Villa-Questions d’Art, Letizia Battaglia (Palermo 1935) accende una sigaretta e sfoglia il catalogo della personale Anthologia in corso allo ZAC – Cantieri Culturali alla Zisa a Palermo (fino all’8 maggio). Ma, come prima cosa, si sfoga: «Non ne posso più. Faccio fotografia e vivo da militante contro la mafia, non mi faccio corrompere e pubblico le foto dei mafiosi perché è giusto pubblicarle, ma non sono la Battaglia contro la mafia! Fotografo anche altro, come mia figlia Patrizia mentre partorisce. Gli omicidi sono solo una parte della nostra vita a Palermo». Proprio alla sua città è dedicato il Centro Internazionale di Fotografia che sarà inaugurato a breve. «Tre anni fa chiesi a Orlando di far restaurare due padiglioni della Zisa. Il mio progetto è quello di fare un centro con due gallerie, una con i grandi fotografi internazionali e l’altra per i giovani emergenti. Ma più che altro si tratta dell’archivio della città di Palermo. Vorrei ricostruire fotograficamente questa Palermo un po’ devastata e sgangherata. Sarà un luogo di grandi meeting tra chi ama la fotografia, ma anche la poesia, la musica, scrittura, l’arte contemporanea».

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Ci sono stati dei momenti in cui hai scelto di non fotografare, come quando furono assassinati Chinnici e Falcone…

Abbiamo avuto paura, la tensione era alta. Non era possibile accettare tutte quelle morti e violenze. Una bomba scoppiava da una parte, un incendio dall’altra. Tutte intimidazioni mafiose. Quando ci chiamarono alle 8 del mattino perché era successo qualcosa da qualche parte, io dissi che non ci sarei andata. Era Rocco Chinnici. Ci andò Franco Zecchin, che era il mio compagno, e fece anche delle belle foto. Oggi sono pentita di non aver fotografato, perché era giusto che facessi quelle foto e le mostrassi. Però non ce la feci. Era umano. Noi fotografi eravamo sempre pronti a correre con la macchina fotografica e non potevamo nasconderci, diversamente dal giornalista che può scrivere quattro cose e perdersi in mezzo alla folla. Qualche volta dovevamo «sflashare», perché di notte non si vedeva. Io il flash l’ho usato pochissimo, ma qualche volta era necessario. Poi, dopo Chinnici mi bloccai per sempre con Falcone. Quando la televisione disse che era successo qualcosa sull’autostrada, sembrava che si trattasse del giudice Falcone, mi sentii morire dentro. Penso che sia stato allora che non ho più accettato di incontrare la morte violenta.

La scelta del bianco e nero dipende dal fatto che fotografavi prevalentemente per un quotidiano? 

No, perché allora L’Espresso o Panorama chiedevano sempre foto a colori, ma io non ho mai amato il colore. Specialmente quando fotografavo i morti. Ancora oggi il solo pensare al rosso del sangue mi fa star male. Penso che il bianco e nero sia più silenzioso, solenne, rispettoso. Anche quando guardo la fotografia degli altri cerco il bianco e nero. È un gusto artistico, del mezzo, del risultato.

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Nei primissimi anni ’70 la fotografia è stato un mezzo per conoscerti… 

Sì. Ho iniziato a fotografare Milano, nel 1971, per guadagnarmi il pane. Fin da bambina sognavo di diventare scrittrice, per cui il giornalismo era una cosa naturale. Però, quando portavo da freelance un’idea, un articolo, mi dicevano sempre «e le fotografie?». Allora una mia amica mi regalò una macchinetta e iniziai a fotografare. Ma già allora era un mezzo che non conoscevo, anzi non lo conosco neanche oggi! Ho sempre fotografato quasi per miracolo. Non ho mai capito le tecniche, però sapevo quelle quattro cose che mi sono servite. Ho avuto la fortuna, ad esempio, di andare a cercare Pier Paolo Pasolini di cui ho una ventina di fotografie, che ora sono nella sua casa. Ma la passione è venuta dopo, a Palermo. Quando fui chiamata dal mio giornale – L’Ora – con cui già collaboravo. All’epoca, comunque, non pensavo che fosse un mezzo psicoanalitico. Lo penso oggi di allora. So che c’erano delle spinte molto forti verso le donne, le bambine. Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Non sono mai stata lesbica, ho sempre avuto compagni uomini che ho amato, però nella fotografia avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa. Con la fotografia ho tentato di esprimere me stessa. Certo, quando mi mandavano a fotografare il morto ammazzato, mentre lo fotografavo avevo un dolore e una tensione di donna, che è diverso da quella degli uomini. Mi ricordo io e Franco Zecchin. Lui era fermo fermo, freddo freddo. Mi dicevo, «ma questo non scatta, ma che fa?». Io, invece, bisticciavo con i poliziotti per passare… Poi, quando tornavamo, lui aveva tante bellissime fotografie, io avevo le mie, ognuno fotografava in modo e con risultati diversi. Magari dei miei 18 scatti, 15 erano una schifezza, altri così, poi finalmente c’era una foto buona. Per me fotografare è stato il lavoro più bello del mondo!