Era uno dei titoli più anticipati del festival. Il pubblico – già elettrizzato prima dell’inizio e progressivamente più elettrico durante la proiezione – ha salutato con una standing ovation la fine del film e gli autori/protagonisti – una quarantina di persone – saliti tutti insieme sul palco. Entro un’ora, era partita l’asta dei compratori dalla quale, il mattino dopo, usciva vittoriosa la Fox Searchlight, con l’offerta altissima di 17.5 milioni di dollari. E, dato che oggi non è mai troppo presto, troppo tardi, o semplicemente troppo superfluo parlare di Oscar, «i pronostici» gli hanno già assegnato almeno un paio di statuette.

È, The Birth of a Nation, la nascita di una nazione, non come raccontata da D.W. Griffith, nel 1915, in quello che rimane tutt’ora in uno dei capolavori più indigeribili della storia del cinema, ma vista da un trentasettenne afroamericano, che non ha mai diretto un film e che qui firma sceneggiatura, regia e produzione, oltre ad essere il protagonista. Con questo esordio, Nate Parker (nato a Norfolk, in Virginia – lo avete visto in Santi senza paradiso, La vita segreta delle api e Red Tails) non sfida solo le fondamenta dell’industria cinematografica Usa («siamo costruiti su sabbia», ha detto dopo il film), ma una storia che il cinema ha raramente esplorato, quella di Nat Turner, lo schiavo /predicatore religioso che, nel 1831, condusse una rivolta durante la quale vennero uccisi una sessantina di bianchi e, in risposta all’insurrezione, almeno duecento schiavi.

Prima di Parker, solo il grandissimo regista afroamericano Charles Burnett aveva dedicato un intero film a Turner, Nat Turner. Troublesome Property, un affascinante, intricato, mix di documentario e ricostruzione drammatica che esplorava, nel contesto della storia e della cultura black, la problematica eredità dello «schiavo mistico», del suo rapporto con la religione e della sua rivolta.

Rispetto alla riflessione di Burnett, The Birth of Nation è un biopic relativamente tradizionale, quasi grezzo, che, poco a poco, sconfina nel pulp -più Braveheart (Mel Gibson è anche ringraziato nei credit, insieme a Spike Lee, con cui Parker ha lavorato in Red Hook Summer) che 12 anni schiavo. Insolitamente kolossal per un titolo in concorso al Sundance, il film di Parker inizia con Nat bambino – la sua futura grandezza anticipata in una cerimonia ancestrale in mezzo ai boschi – che gioca con il figlio dei padroni della piantagione dove è nato e da cui prende il nome, senza sapere che tra loro esiste una differenza. L’anomalia del suo percorso diventa marcata dopo che la signora Turner (Penelope Ann Miller), scoperto che sa leggere, lo invita nella grande casa coloniale e gli permette di studiare.

Solo la Bibbia, ovvio. Il resto dei libri sono riservati ai bianchi. Nat cresce raccogliendo cotone come gli altri schiavi della famiglia Turner, ma la sua educazione, e il fervore religioso, determinano un destino diverso. Problemi finanziari, fanno sì che il suo ex compagno di giochi (Arme Hammer), diventato «il» padrone, affitti Nat ad altre piantagioni dove i suoi sermoni, vengono usati per pacificare gli schiavi, sottoposti ad angherie molto peggiori di quelle riservate a lui. E, dall’accettazione incondizionata di quelle angherie, in nome del volere di Dio, Nat passa gradualmente a diventare il tramite divino di una rivoluzione che lui stesso inizia.

Il film – girato senza i vezzi artistici di Steve McQueen o la propensione sadico/barocca di Mel Gibson – cresce in quel progredire e decolla veramente solo con lo scoppio di violenza (la prima testa di un bianco che viene sfracellata salutata in sala da qualche applauso e «yeah» abbastanza raggelanti).

Pur interpretandolo in modo intelligente e sottile, non ci sono dubbi, o inibizioni, nella prospettiva eroica secondo cui Nate Parker dipinge in suo protagonista, anche nei momenti più brutali. E la forza delle sue convinzioni, della sua ambizione, diventa sostanzialmente la forza di questo lavoro, determinato a scuotere ulteriormente un dibattito culturale già in corso. Per realizzarlo, Nate Parker ci ha messo sette anni. «È stato difficile. Un film sulla schiavitù è duro da fare. È un soggetto che storicamente abbiamo ripulito, che nessuno vuole trattare. Mi dicevano che all’estero non sarebbe interessato a nessuno», ha detto l’attore/regista al pubblico del Sundance.

E ancora: «Volevo provare che tutti abbiamo la responsabilità di iniziare un cambiamento. Nat Turner lo ha fatto usando gli strumenti che aveva a sua disposizione. Solo perché esistono sistemi corrotti non vuol dire che non si possa sovvertirli. Al cinema, gli schiavisti sono sempre ritratti come degli aguzzini, dei sociopatici, da cui è facile prendere le distanze. In realtà erano gli agenti di un sistema economico sociale ben preciso, sancito dalla costituzione. Gente che spesso credeva di fare del bene. Guardare lo schiavismo secondo quell’ottica rende più facile capire i modi in cui la sua eredità ci impatta ancora oggi».