La tempesta del voto è arrivata in ogni angolo dello stivale ma dalle parti delle donne elette proprio non si è vista. Anzi, la presenza femminile in parlamento subisce una, seppur minima, flessione. Come abbiamo scritto sul manifesto di ieri, il sistema delle pluricandidature ha favorito deputati e senatori.

In questo day-after elettorale si confrontano tre leader quarantenni (Renzi, Di Maio, Salvini) in un paese capace di sconvolgere tutti gli equilibri politici tranne quelli di genere. Questo segno maschile è d’altra parte perfettamente logico e coerente con il livello di arretratezza generale che ci contraddistingue.

Il voto, è vero, parla la lingua della rabbia e della paura, ma non si accorge che paura e rabbia sono sentimenti presenti ogni giorno fuori e dentro le mura domestiche, nei rapporti privati e pubblici. Il paese è sì diviso in due, ma non solo perché restituito dalle urne dipinto con i colori blu e giallo della Lega e dei 5Stelle. Dietro questa mappa ne emerge un’altra.

L’Italia è spaccata a metà – lo testimonia concretamente anche l’ultimo Rapporto Svimez – dalle percentuali che parlano di un tasso di occupazione femminile del centro-nord del 61,9% (quasi ai livelli europei), e un tasso di occupazione al sud dimezzato, al 34%. Questi dieci anni di crisi per le donne del Sud hanno significato quasi duecentomila posti di lavoro in meno, e la formidabile ripresa favoleggiata da Renzi e compagni ne ha restituiti appena 6 mila.

Le prime a scendere in piazza dopo il terremoto elettorale, oggi, 8 marzo, sono le donne, in Italia e nel mondo. Nella sconfitta storica della sinistra in questo 2018, proprio a 50anni dal 1968, l’unica rivoluzione culturale e sociale in campo sembra essere quella delle femministe e dei loro movimenti che ovunque hanno ripreso forza e visibilità. Le ragazze di nonunadimeno, promuovono la parola d’ordine dello sciopero generale per denunciare di fronte all’opinione pubblica una condizione sociale che riguarda tutto l’arco della vita. E che tocca da vicino le nuove generazioni, protagoniste loro malgrado di una condizione segnata da precarietà e violenza, schiacciate dentro un mercato del lavoro povero, nei servizi e nelle fabbriche, nei lavori di cura in famiglia, colpite dalle politiche di austerità, con i tagli al welfare e alle pensioni scaricati sulle loro spalle.

Si intitolava Tutte di meno una recente copertina del manifesto dedicata agli ultimi rapporti internazionali, a quel global-gender-gap che misura nel 23% la differenza tra il salario medio di una donna rispetto a quello di un uomo. Una diseguaglianza planetaria che ogni paese poi declina in forme diverse. In Italia la fotografia del furto quotidiano ai danni delle lavoratrici dice che le donne del Nord non abitano lo stesso paese di quelle del Sud costrette a vivere senza welfare, con un livello di istruzione più basso e di povertà più alto. E visto il basso tasso di occupazione femminile «le occupate – come osservava sul nostro giornale Chiara Saraceno – sono prevalentemente quelle più istruite e le più istruite sono quelle che anche quando si fanno una famiglia e fanno figli meno frequentemente escono dal mercato del lavoro».

Il lavoro femminile, scarso e mal retribuito, porta con sé anche la piaga della violenza e del ricatto sessuale, e purtroppo la violenza sessuale è forse l’unico podio che ci equipara alla condizione vissuta dalle donne nel mondo. Centinaia di migliaia sono le vite segnate da esperienze che toccano tutti i tasti dolenti, che in misura minima arrivano alla denuncia, e che spesso si risolvono con l’abbandono del posto di lavoro. Quando, invece, il problema esplode in famiglia non c’è riparo dove rifugiarsi. E si finisce nel funereo, tragico conteggio dei femminicidi. È vero che qualcosa sta cambiando, per esempio nel contratto della scuola è previsto il congedo per le vittime di violenza, ma è una rondine che non porta la primavera.

Perché occorrono finanziamenti e programmi pubblici ma visti finora e neppure pervenuti nelle pur mirabolanti promesse della propaganda elettorale. Basti ricordare, come caso simbolico e rivelatore, cosa accade a Roma, un comune amministrato da una sindaca donna dei 5 Stelle, che potrebbe passare alla storia per aver chiuso la Casa internazionale delle donne, luogo simbolo della battaglia femminista. Speriamo che la clamorosa vittoria pentastellata sia invece di buon auspicio.