L’altra faccia di Alan Lomax
Pagine/Un libro getta alcune ombre sulla figura dell’etnomusicologo Usa Nel volume di Karl Hagstrom Miller si critica l’operato del ricercatore, avrebbe insistito su una narrazione fuorviante e ingannevole del folk afroamericano
Pagine/Un libro getta alcune ombre sulla figura dell’etnomusicologo Usa Nel volume di Karl Hagstrom Miller si critica l’operato del ricercatore, avrebbe insistito su una narrazione fuorviante e ingannevole del folk afroamericano
Muddy Waters sentì per la prima volta la sua voce registrata nel 1941, quando il ricercatore e etnomusicologo Alan Lomax, accompagnato da John Work, afroamericano, membro della Fisk University, arrivò nella piantagione di cotone di Stovall, in Mississippi, dove il futuro re del blues lavorava. Quando gli dissero che due uomini lo stavano cercando, Muddy pensò di nascondersi. «Hanno scoperto che vendo whisky illegalmente». Non si trattava di questo, Lomax voleva semplicemente registrare le canzoni di Muddy Waters (anche se gli promise venti dollari che non gli diede mai), immortalare il blues più puro e vicino alle origini, quello suonato in una piantagione di cotone, con una chitarra sgangherata, da un musicista non professionista. Alan Lomax con il padre John condusse una lunga ricerca, concentrata prevalentemente negli Stati Uniti del sud, di musica blues, cercandone interpreti nelle prigioni e nelle piantagioni, scoprendo talenti come Leadbelly e il già citato Muddy Waters. Il materiale raccolto è conservato nell’Archive of American Folk Song nella Biblioteca del Congresso. Lavorò anche con Woody Guthrie e registrò materiale anche in Inghilterra, Italia e Spagna (durante il regime franchista a cui era riluttante e ostile, essendo ideologicamente molto vicino alle dottrine marxiste). L’opera di Lomax è stata senza dubbio benemerita, ci ha consegnato un patrimonio che sarebbe andato perduto, un’eredità sonora e culturale di inestimabile valore. E di questo non possiamo che essergliene grati. Anche in considerazione del fatto che nei tempi in cui incominciò il suo lungo e problematico lavoro, la cultura afroamericana interessava a pochi. Ma l’approccio, la modalità di criterio nella scelta, molto precisa e selettiva del materiale, non è esente da dubbi e critiche. Karl Hagstrom Miller, autore del libro Segregating Sound: Inventing Folk and Pop Music in the Age of Jim Crow, sottolinea: «Quando Lomax si presentava in una comunità nera, non chiedeva: ‘Fammi sentire le canzoni che ti piace cantare’. Voleva invece che gli venissero eseguite quelle che corrispondevano alla sua idea di folk, di musica popolare e di blues. Canzoni antiche e oscure con caratteristiche ben precise. Non era interessato, ad esempio, a canzoni di successo o di chiesa. Di conseguenza quello che hai l’opportunità di ascoltare in queste registrazioni non è ciò che piaceva agli afroamericani della classe media o a quelli più abbienti, borghesi o agli afroamericani urbanizzati». Lomax concentrò le sue ricerche nelle carceri e nei luoghi di lavoro rurali. Lui stesso dichiarò: «Le comunità nere erano semplicemente troppo difficili per lavorare con una certa efficienza e quindi mio padre ha avuto la grande idea che probabilmente tutte le persone peccaminose le potessimo trovare in prigione. E infatti lì le abbiamo trovate, con il loro incredibile corpo musicale».
La copertina di Segregating Sound: Inventing Folk and Pop Music in the Age of Jim Crow, il libro di Karl Hagstrom Miller
DIFFIDENZE
Anche perché non c’era molta disponibilità, se non parecchia riluttanza e diffidenza, da parte degli afroamericani, vedi l’episodio iniziale di Muddy Waters, a «cedere» la loro cultura a un bianco con un registratore (in tempi in cui la maggior parte delle persone aveva scarsa dimestichezza con queste «novità tecnologiche»). In prigione, con l’avallo e la collaborazione delle autorità era tutto più facile. Lo stesso Lomax, esplicitamente, senza alcun dubbio morale, riportava nei suoi appunti: «La guardia è uscita, spingendo un negro con un vestito a strisce con la punta del suo fucile. Il poveretto, evidentemente temendo di essere punito, tremava e sudava con estrema paura. La guardia lo ha spinto davanti al nostro microfono».
Non è improbabile che molte delle sue «prison song» siano state registrate in queste condizioni di violenta sudditanza. Il prigioniero, magari isolato da anni, era per il ricercatore l’epitome della «purezza» artistica, autentica, non contaminata da influenze esterne. Nel contesto si inserisce anche un ulteriore tassello culturale, come sottolinea la professoressa Dwandalyn Reece, curatrice musicale presso lo Smithsonian National Museum of African American History and Culture: «In realtà le persone, bianche e nere, cantavano l’uno la musica dell’altro, a causa della stretta vicinanza che le due culture, pur così diverse, avevano, vivendo l’una accanto all’altra. È inevitabile che la musica e le espressioni culturali che producevano fossero intrecciate e interconnesse».
Karl Hagstrom Miller approfondisce meglio il concetto, apparentemente cinico ma assolutamente corrispondente alla realtà: «I proprietari bianchi di schiavi e gli schiavi neri vivevano insieme e lavoravano insieme nella piantagione. I musicisti neri suonavano i valzer e le gighe alle feste dei bianchi. Negli anni Trenta dell’Ottocento, neri e bianchi andavano insieme a incontri di “rinascita” nei campi, dove inni cristiani si mescolavano a pratiche religiose e musicali africane per creare le canzoni che conosciamo come spiritual. Negli anni 1880 e ’90, si è creata un’industria musicale a livello nazionale, molto prima dell’avvento della radio. In sostanza c’era una differenza tra ciò che i folkloristi stavano cercando e ciò che le persone stavano effettivamente ascoltando». Dwandalyn Reece aggiunge un ulteriore spunto di riflessione, affermando che quelle scelte musicali, pur in buona fede, evidenziavano stereotipi negativi e pericolosi. Le scelte artistiche di Lomax suggerivano che «gli afroamericani sono criminali, analfabeti, non sono persone serie, non sono intelligenti. Quella ricerca di “autenticità” spinge su una divisione di ciò che un afroamericano può o non può essere».
UNA LINEA NETTA
Sempre paradossalmente e involontariamente, nel momento in cui il movimento per i diritti civili stava cercando di affermarsi, riunendo bianchi e neri in una causa comune, Lomax ha tracciato una linea netta tra la musica bianca e la musica nera che, con l’aiuto delle case discografiche, ha contribuito a tenere separate le due parti. È stato in qualche modo sottolineato come il suo operato sia diventato una sorta di brand attraverso il quale ha costituito una «narrazione» e una «costruzione» popolare che però non raccontano tutta la realtà della musica folk afroamericana. Altrettanto criticata la modalità con cui si è sostanzialmente appropriato del copyright delle registrazioni, senza pensare a corrisponderne una parte agli autori ed esecutori dei brani. Una particolarità tranquillamente in uso ai tempi e protrattasi anche nella scena inglese degli anni Sessanta dove non si contano i brani palesemente «presi in prestito» dai classici blues ma poi firmati da molti dei principali protagonisti di quegli anni. Robert Gordon, autore della biografia Muddy Waters. Dal Mississippi Delta al blues di Chicago sottolinea: «Grave è il rifiuto di Lomax di riconoscere il contributo altrui, in particolare quello di un afroamericano (l’aiutante John Work, nello specifico, sempre escluso da ogni tributo al suo lavoro) le cui idee, la cui ricerca, le cui conoscenze, sono risultate fondamentali per il conseguimento dei risultati da lui stesso perseguiti. I bluesmen erano di gran lunga più generosi e fluidi nello scambio di ispirazioni e conoscenze artistiche. Lomax ha registrato la cultura del blues ma non ha assorbito lo spirito di collaborazione che aveva fatto fiorire quella cultura».
Alan Lomax era un uomo del suo tempo, con un comportamento che ai nostri giorni può apparire contraddittorio e lontano dalla «correttezza politica» a cui siamo abituati. Rimane l’opera importantissima che ci ha lasciato e per la quale non sarà mai ringraziato sufficientemente. «La funzione primaria della musica è quella di ricordare all’ascoltatore che appartiene a una certa parte del genere umano, viene da una certa regione, appartiene a una certa generazione. La musica di casa tua è un simbolo immediato per tutte le emozioni più profonde che le persone della tua parte di mondo condividono». (Alan Lomax)
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