L’inferno del lavoro in India sui muri di una Galleria di Bloomsbury, cuore di Londra, in una mostra dal titolo Behind the Indian Boom, in focus sulle tante facce della «Disuguaglianza e resistenza nel cuore di una crescita economica» come appunto spiega il sottotitolo.

E non può che trattarsi della Brunei Gallery, di fronte alla SOAS University, cucina della migliore ricerca che la nostra vecchia Europa possa offrire in materia di antropologia, intesa come sguardo a tutto campo sulle contraddizioni del presente.

Inferno minutamente documentato dalla macchina fotografica, dalla videocamerina, dallo sguardo e dagli appunti di chi ci si è trovato dentro non certo per caso, né in veste di fotoreporter ma come ricercatore, nel senso che un Giulio Regeni avrebbe dato a questa parola. Uno che si è scelto un campo di osservazione, e periodicamente, per mesi, anno dopo anno, ci ritorna – anche quando ormai non avrebbe più niente da scoprire, anche quando quello scampolo di mondo ai confini del nostro mondo gli è diventato talmente familiare da ritenersi esperto – perché a quella comunità prigioniera di condizioni socio-ambientali di inimmaginabile brutalità, e magari in resistenza, si sente di appartenere ben oltre la cosiddetta «participant observation».

Sguardo insomma che da un certo punto in poi ha sentito l’urgenza di condividersi ben oltre i Papers e le Conference Call, per diventare denuncia.

BAMBINI E DETRITI

Ed eccoci dunque dinnanzi a una serie di quadrerie, suddivise per titoli che potrebbero apparire sommari (carbone, mattoni, cotone, alluminio) e nell’insieme documentano l’impressionante arcaicità di questa seconda potenza emergente subito dopo la Cina, che in moltissimi comparti trova più conveniente impiegare il lavoro dell’uomo al posto delle macchine, perché non costa… nulla, o quasi. Il minimo garantito per giornata in India è fermo infatti sotto i due euro, e quando è pagato, perché può anche succedere di lavorare gratis in cambio del companatico, oppure in cambio degli scarti, da rivendere magari al mercato nero con l’avallo delle mafie.

E dunque, eccoci a contemplare immagini di miniere a cielo aperto che si scavano a mani nude, le donne al pari degli uomini, e i bimbi parcheggiati tra i detriti. O di pietraie che si scarnificano colpo dopo colpo senza neppure l’idea di una trivella, basta il martello. E poi i mattoni, che si modellano uno per uno in marcite di acqua e argilla per poi essere messi uno per uno ad asciugare e infine trasportati in precario bilico su biciclette che non si sa come riescano a marciare. Mattoni che poi serviranno a costruire palazzi, persino grattacieli – e in un filmato ecco una fila di donne che se li lanciano con destrezza questi mattoni, come in una danza, o come in un film Bollywood però senza la musica (e invece è solo la versione indiana di un «nastro trasportatore»…).

INFINITA MIGRANZA

E poi la realtà del lavoro stagionale, infinita migranza. Le stime più recenti parlano di 140 milioni di persone, per flussi in effetti inquantificabili. Immagini di ricoveri quanto mai precari, spesso solo un telo per terra; di umanità stipata in carri come bestiame, di donne ammucchiate nel sonno nel caleidoscopio dei loro sari. Per non dire del lavoro più indecente di tutti, da sempre occupazione esclusiva dei dalit, gli intoccabili: la «gestione» dei rifiuti, in primis la merda che ogni giorno si accumula nelle centinaia di milioni di latrine negli slum che, all’ombra dei nuovissimi complessi residenziali, restano l’habitat prevalente dell’India. Un filmato documenta in close up il ricorso alla cenere per attutire la puzza, il solo uso di una paletta senza guanti di protezione, le mosche ovunque, l’assoluta miseria del contesto, e niente acqua. «Che altro fare… non ci sono fognature» spiega la padrona della casupola (e relativa latrina) di casta solo un gradino più alto della dalit che le arriva in casa ogni mattina. «Lei è pagata, ovvio: 100 rupie al mese…» equivalenti a 1 euro e 30 centesimi!

Viene spontaneo chiedersi come una simile emergenza possa reggere, e infatti non regge. L’anno scorso ha fatto (si fa per dire) notizia la magnitudine di uno sciopero generale che ha visto 180 milioni di lavoratori (o forse solo 140 milioni, un bel numero comunque) incrociare le braccia in tutti i comparti del lavoro in India. Evento straordinario non solo per i numeri, ma più ancora come manifestazione di coraggio – se si pensa che il 92% della forza-lavoro indiana rientra nel cosiddetto lavoro informale, ovvero senza-diritti, nessuna tutela: alle mercé di intermediari, job center, caporali che concorrono alla più perfetta esternalizzazione di ogni mansione, nella rete di appalti e subappalti. Scioperare in India resta dunque una sfida non da poco, che una moltitudine inquantificabile di lavoratori indiani nei più diversi comparti ha avuto il coraggio di inscenare i primi di settembre dell’anno scorso – e si spera di nuovo a giorni.

LOTTA DI CASTA

Ma più spesso non c’è sciopero né rivendicazione di giustizia che tenga. Le cronache dell’India, specialmente nelle aree tribali dove il solo «impiego» che esiste è in miniera, o nella totale precarietà del lavoro stagionale un po’ ovunque, o in certi stati come l’Uttar Pradesh dove la questione castale è ormai lotta per bande, la legge la fa il più forte, caporalato locale o multinazionale che sia, con il supporto della forza pubblica. Come raccontano i magnifici b/n di Javed Iqbal, unico fotografo professionista incluso in questa selezione non certo per l’indubbia qualità del suo lavoro, ma perché il suo lavoro è nato e si è affinato precisamente in queste aree di negritudine estrema – e si è permesso qualche trasferta a Delhi o Mumbai solo per documentare il terminal dell’esodo dalle campagne, e l’inizio dell’inferno urbano negli slum -. Sguardo-attivista.

E più che mai attivista lo sguardo, impegno, passione di coloro che questa mostra l’hanno vissuta, oltre che curata, da protagonisti: il film-maker Simon Chambers insieme all’antropologa Alpa Shah, con la collaborazione di Jens Lerche, Vikramaditya Thakur, Itay Noy e molti altri, tutti docenti, o ancora dottorandi, di valore. All’attivo del primo una serie di documentari, in particolare sulla resistenza dei tribali Gond contro la multinazionale dell’alluminio Vedanta, in Chattisgarh; e una recente docenza alla Jamia University di Delhi (non pochi filmati in mostra sono frutto infatti dei suoi corsi).

Quanto ad Alpa Shah, difficile immaginare un profilo più robustamente attrezzato accademicamente e più radicalmente ostinato-e-contrario, sul fronte della ricerca: specializzata nelle aree e problematiche dei tribali soprattutto in Jharkhand, la Shah è tra i pochissimi che siano riusciti a penetrare quel cuore di tenebra di irrisolvibile complessità che si sta giocando da anni nelle foreste: la lotta armata.

Quell’insorgenza naxalita, di ispirazione maoista, che nel 2006 l’allora primo ministro Manmohan Singh definì «il problema più grave per il Governo Indiano dalla dichiarazione di Indipendenza ad oggi» – e che tale resta anche ora, cronaca quotidiana di attentati, villaggi in fiamme, morti e feriti (benché ignorata dalle nostre testate).

Non a caso la stanza conclusiva di questo percorso/mostra dà ampio spazio agli scatti che la Shah ha raccolto durante i suoi field work ospite dei maoisti: emozionanti per la prossimità proprio totale con questa dimensione di lotta così al tempo stesso arcaica e contemporanea e per l’eccezionalità di un vissuto (di marce forzate, esercitazioni militari, lavoro sociale tra i tribali) che va ben oltre la ricerca. Molto atteso il libro cui la Shah sta lavorando da tempo su tutta questa storia, che senz’altro è stata anche una eccezionale avventura.

UNA GIORNATA DI STUDI

È possibile che questo scenario di disuguaglianza possa via via correggersi, in parallelo con un boom economico di tali e spettacolari profitti che un buon numero di nababbi indiani si trova ormai da tempo elencato tra gli uomini più ricchi del mondo? Il punto di vista dei curatori di questa mostra è: No. Semmai è l’opposto, è proprio grazie a uno scenario di così strutturale e in qualche modo voluta disuguaglianza, che il boom economico dell’India ha potuto generare profitti così spettacolari, non solo per un’esigua minoranza di nababbi (perché intorno al banchetto indiano, da anni si muove il volano della finanza globale).

Non solo carrellata di immagini, dunque. Promossa dalla London School of Economics, e in particolare dal Dipartimento di Antropologia, all’interno di un Programma di Ricerca su «Povertà e Disuguaglianza» diretto da Alpa Shah, la mostra documentata in queste pagine prevede un’intensa giornata di studi il 9 dicembre, con contributi di giornalisti, attivisti, studiosi e docenti invitati dall’India. Solo qualche nome: Sukhdeo Thorat, Anand Teltumbde, Virginius Xaxa, Gopal Guru, Joseph Bara, Kalpana Kannabiran, K. Satyanarayan, Bhangya Bhukya, Javed Iqbal, Ruby Hembrom e Gautam Mody, in dialogo con i vari Jens Lerche, David Mosse, Clarinda Still, John Harris, Nathaniel Roberts, Richard Axelby e altri, che hanno in varia misura contribuito alla coralità di questo evento. Nella stessa occasione verrà presentata anche una raccolta di saggi, sintesi delle loro ricerche sul campo, dal titolo Ground Down by Growth: Tribe, Caste, Class and Inequality in 21st Century India (info qui).

In focus appunto l’universo dei diritti, tema quanto mai complesso per l’India che proprio quest’anno celebrerebbe il settantesimo anniversario dell’Indipendenza dal giogo coloniale. Per esempio il diritto/facoltà di sfruttamento delle terre nelle aree tribali, fino a ieri protette da una robusta legislazione, che però da tempo è soggetta a revisione; o in materia di land grabbing, normale «corollario» di qualsiasi progetto di sviluppo; o in relazione ai vari fronti di dissenso, resistenza, lotta armata e collaterali abusi (un caso fra tutti: la detenzione letteralmente disumana di Sai Baba, docente universitario, ritenuto l’ideologo dell’insorgenza naxalita, da mesi in carcere duro nonostante l’infermità agli arti inferiori).

Per non dire della questione castale, sempre più esplosiva ovunque. Il tutto senza però tralasciare la dimensione dei saperi, delle conoscenze tradizionali, delle tante iniziative dal basso oppure media che spontaneamente sono nati in questi ultimi anni dal mosaico delle resistenze, all’ombra di Shining India.