La terra dell’abbastanza di Fabio e Damiano D’Innocenzo continua a raccogliere consenso, a un anno dall’anteprima alla Berlinare, aggiudicandosi il premio Mario Verdone al Festival del Cinema Europeo e il premio Nuovo IMAIE a Matteo Olivetti come attore rivelazione durante il Bifest. I due giovani fratelli, vincitori del Nastro d’Argento Miglior regia esordiente, si pongono in una ricerca estetica e di scrittura consapevole, aderente alla vita e lontano dai cliché. Ne abbiamo parlato con Damiano D’Innocenzo che con fermezza e ironia racconta il mondo e lo sguardo da cui nascono le loro storie.

Come nasce l’idea del film?

L’idea del film nasce in maniera spontanea, un po’ spartana. Ero a cena con mio fratello e a un certo punto mi disse “La terra dell’abbastanza”. Non capivo cosa volesse dirmi e ne anche lui lo sapeva, mi disse che era un titolo che li apriva un mondo; cercammo di capire cosa potesse essere questa terra dell’abbastanza, cioè quello che tu hai già e che ti basta. Alla fine del film, infatti, la madre di Mirko risponde alla domanda di Max Tortora “che fate per cena?” con una frase che racchiude un po’ il senso del film “quello che c’è”, cioè quanto basta che in questi ultimi tempi è spesso frainteso: non troppo da farselo bastare o troppo poco per cercare una risalita. Noi siamo negli anni in cui mediamente abbiamo tutto, non ci manca nulla, ci manca solo che non ci accontentiamo di quello che abbiamo. Volevamo raccontare anche il limbo in cui siamo più o meno cresciuti e quanto fosse facile cadere in certe dinamica da cui siamo scappati grazie ai nostri genitori. Tornando all’idea non c’è stata una vera e propria idea, dal titolo abbiamo iniziato a scrivere la prima scena. All’inizio volevamo che tutto il film fosse girato all’interno di una macchina dove due amici si ritrovano a parlare; però a un certo punto ci siamo chiesti che succede? Fanno un incidente e da li siamo andati avanti. Abbiamo iniziato a scriverlo quando avevamo vent’anni e naturalmente è cambiato come siamo cambiati noi. Ogni volta pensavamo che fosse datato e invece resisteva, come i maglioni buoni, continuava a essere indossabile.

Quanto c’è di autobiografico nel vostro film?

Di autobiografico ci sono i conoscenti o banalmente gli usi e costumi di quei posti che conosciamo bene: come la gente parla, quello che fa e non farebbe mai, quanto non c’è lussuria nel crimine e soprattutto che la gente parla poco a differenza di Suburra e Gomorra dove parlano con queste frasi super enfatiche, è intrattenimento e non ci interessa. Quando parliamo del crimine così ridicolo, piccolo, marginale era quello che noi bazzicavamo per vie traverse. Volevamo fare un racconto quasi demoralizzante per quelli che si aspettano di vedere le pistole che luccicano o quando uno spara con dodici angolazioni diverse; abbiamo voluto essere estremamente rigorosi, realisti, sotto questo punto di vista. Ci siamo detti di mettere un po’ le cose a posto soprattutto a livello del glossario, non è come lo dipingono, c’è molto meno Scarface e molto più scarpe zozze.

Come avete scelto gli attori?

Con i provini. Rido perché ormai non si fanno più provini come si dovrebbero fare, spesso offrono il ruolo all’attore che è una cosa ridicola, puoi avere anche Gian Maria Volonté ma se non funziona non ha senso. Andrea Carpenzano è arrivato subito, mentre Matteo Olivetti, Mirko non arrivava mai ed era un po’ frustrante perché era il punto di vista del film. Erano tutti molto bravi ma non arrivava la vita, qualcuno che azzannasse la vita. Matteo aveva ventisei anni quando abbiamo girato ma è riuscito a restituire quegli anni: i diciott’anni di Mirko dove ci sono i momenti di amicizia, di conflitto, scoramento, però in quegli anni la vita la morde, è straripante. Gli altri attori, già avviati, erano lineari, binari; lui invece andava a zigzag, imprevedibile e ha consegnato un provino incredibile, disordinatissimo e per noi era la vita.

Parlando di realismo, c’è nuovamente nel cinema italiano un’attenzione maggiore verso gli ambienti periferici, le borgate che ritroviamo anche nel vostro film. Che cosa pensi?

Gli emarginati, gli esclusi, gli sbagli sono sempre più interessanti. La prima scena del nostro film è interamente girato in una macchina, poi ci è venuto naturale metterli lì perché più banalmente se metti un personaggio ai margini di qualcosa, le situazioni arrivano più velocemente, hai un dramma che ti precede, una situazione in bilico che drammaturgicamente è molto più interessante. Se avessimo ambientato la storia a Prati, nel quartiere bene di Roma, non sarebbe stato più credibile soprattutto se metti sotto uno con la macchina e vai a chiedere a tuo padre cosa fare, ti dice che bisogna chiamare l’avvocato e hai fatto un altro film. Come Il capitale umano, è tratto da un libro americano e senti che gli ambienti hanno una matrice più o meno favolistica. Dall’altra c’è Non essere cattivo di Caligari, Cuori puri di De Paolis, Manuel di Albertini o Fiore di Giovannesi, film bellissimi. La periferia c’è sempre, c’è chi va, cioè registi che vengono da ambienti comodi ma vanno a girare lì perché gli piace, c’è chi ci è nato e quindi cerca di raccontarli senza cliché.

Cosa pensi del cinema italiano dell’ultimo decennio?

Penso che il cinema Italiano sia molto casuale: c’è l’anno in cui escono molte commedie e allora c’è il ritorno della commedia, poi Il capitale umano e La grande bellezza e allora sembra essere ritornati a un racconto interessante della borghesia ed è finita li, sono usciti i film di genere come Jeeg Robot ma finisce là; non c’è ancora un movimento, una coralità, mi sembra tutto molto disordinato. Pensa A Ciambra, un film stupendo o al lavoro di Rohrwacher, è tutto molto casuale. Per me la casualità è super disperante, non c’è un confronto. C’è troppa rivalità e non siamo così bravi come i registi americani, siamo bravi ma non così bravi e non può esserci un discorso di divisione o Garrone o Sorrentino o Guadagnino o Nanni Moretti, io li prendo tutti. In questa generazione bisogna vederli tutti e avere la possibilità di confrontarsi, trovare punti in comuni, consigli e non sentire “ah no, tu non me parlà perché l’anno scorso hai fatto un film di merda”. Questo mi rattrista ed è una cosa che sento ancora nelle generazioni più grandi di noi che ti guardano e ti chiedono “ma tu da dove vieni, che vuoi fare? non ci puoi entrare qua”. Non bisogna chiedere il permesso per fare cinema.

Come siete arrivati al cinema?

Da quando siamo bambini abbiamo la passione d’inventare storie, giochi, mondi paralleli, sai l’arte d’inventare qualcosa che non c’è e poi declinarlo con quello che viene meglio. All’inizio eravamo molto bravi a disegnare, poi abbiamo smesso per un rifiuto dell’accademia. Abbiamo continuato a scrivere privatamente, io poesie e mio fratello fumetti, ci siamo appassionati alla fotografia e poi ci siamo detti che il cinema è l’arte che racchiude tutte queste forme. Per la figura del regista abbiamo sempre citato il padre di un nostro caro amico, andava in giro in bici, scriveva, aveva una casa bellissima vicino al mare piena di fantasia, maschere, faceva riunioni di scrittura, per trovare i finanziamenti e ci sembrava un lavoro bellissimo, qualcosa che anche noi potevamo fare. Noi scriviamo sempre, tutti i giorni, anche una cosa piccola; è qualcosa che bisogna allenare, fortunosa anche se la fortuna la devi cercare. Abbiamo iniziato così, pensando che fosse una cosa semplice, quando semplice non è: incontri, interviste, un sacco di domande, produttori, distributori. Per me il cinema era una cosa più semplice: scrivere sul quaderno e provare a girare con la telecamerina.

Oltre il cinema, qual è un altra forma a cui vi sentite legati?

Il teatro a cui nessuno da molta importanza quando, invece, i registi che si stanno affacciando al cinema dovrebbero tenere dodici finestre aperte anche sul teatro off, cioè che quando entri ci sono solo tre persone di cui due si sono sbagliate e volevano essere da un altra parte. Il teatro è un pozzo da cui attingere soprattutto per gli attori. Abbiamo scritto qualcosa per il teatro che prima o poi realizzeremo, quando avremo tempo perché non è un gioco. La nostra prima esperienza di cinema l’abbiamo avuta insieme al teatro, però se nel cinema eravamo veramente marginali, dei ghostwriter, con il teatro eravamo sempre presenti: abbiamo lavorato con Binasco, Elena Arvigo, un attrice stupenda e una regista straordinaria. Sono loro che ci hanno mostrato il lavoro sugli attori, come si gioca, s’interagisce e che gli attori non possono mai essere tuoi nemici, li devi accogliere e vedere come il percorso può essere fatto insieme perché sono pieni di fragilità.

Quali sono i vostri progetti futuri?

A luglio faremo un film molto diverso da La terra dell’abbastanza: un film corale, una fiaba dark che si chiama Favolacce, ambientato sul litorale romano con tanti bambini. Metteremo in scena la spensieratezza di quell’età però già colpevolizzata, è un po’ per far pace con quel periodo che non abbiamo vissuto molto bene. Eravamo sempre in un altro mondo, degli spiantati, ingenui e non ci siamo mai resi conto. L’abbiamo scritto a ventidue anni e abbiamo fatto La terra dell’abbastanza per fare questo secondo film che è molto più complesso, atipico. Saranno sei bambini di tre famiglie diverse. Poi faremo una serie horror, tra virgolette, declinato su dei temi che ci interessano molto: la solitudine, l’essere soli anche se si è in mezzo alle persone, essere alla fine singoli, gli unici testimoni. È su un esorcista, ma non è splatter è molto più dostoevskiano se vogliamo usare una parola buffa. All’inizio volevamo fare un film ma sarebbe stato troppo lungo e alla fine ci hanno detto di fare una serie prodotta da Cattley e Sky.