Se alla sua nascita, 50anni fa, l’obiettivo del Commercio Equo era la critica alle regole del commercio internazionale, e dimostrare che era possibile fare economia rispettando criteri di equità sociale, la condizione attuale del pianeta – dove 800 milioni di affamati convivono con 600 milioni di persone sovralimentate – rende ancora più urgente il suo ruolo e valide le sue analisi.

L’insostenibilità del modello economico globale tanto è visibile e concreta quanto sembra ignorata dalle politiche che dovrebbero porvi rimedio: 147 macro aziende, in gran parte banche o società finanziarie, hanno un valore economico pari al 40% di tutta la ricchezza mondiale; 10 mega-multinazionali controllano – con 500 marchi di loro proprietà – il 70% delle scelte alimentari mondiali; le prime 10 catene di grande distribuzione controllano il 15% delle vendite mondiali alimentari; le prime 5 catene di vendita europee controllano il 50% del mercato alimentare al dettaglio; nel 2016 si raggiungerà il record della disuguaglianza mondiale, quando l’1% della popolazione possiederà più ricchezza dell’altro 99%, mentre il 79% della popolazione mondiale si spartirà il 5,5% della ricchezza globale.

La Fao ha stimato che entro il 2085 il cambiamento climatico potrebbe causare la perdita dell’ 11% dei terreni coltivabili nei paesi in via di sviluppo, e entro il 2050 causerà un aumento tra il 10% ed il 20% del numero di persone a rischio di fame, e del 21% dei bambini a rischio malnutrizione.

A fronte di questa situazione la World Fair Trade Week di Milano, il più grande evento mai organizzato sul tema, ha lanciato un grido di allarme e di speranza, un monito che ricorda a tutti che povertà e sfruttamento non sono frutto del destino ma soprattutto conseguenze di scelte politiche ed economiche.

L’esistenza stessa del Fair Trade rappresenta una critica all’economia dominante, e la dimostrazione che è possibile un mercato che rispetti criteri sociali ed ambientali, e ridistribuisca il profitto.

È sulla base di questi presupposti che abbiamo scelto di venire a Milano durante l’Expo, ma fuori dall’Expo, per rendere visibile che esiste un modello alternativo di «nutrire il pianeta». Il Fair Trade critica l’attuale modello globale di produzione e commercio degli alimenti che dimostrano essere parte del problema e non della soluzione.

È evidente che l’Expo non è il luogo giusto per elaborare politiche necessarie a garantire una equa alimentazione (vedi la debolezza della Carta di Milano).

L’ambizione della World Fair Trade Week di Milano è stata quindi di presentare il Commercio Equo non solo come un rilevante fenomeno economico e sociale, ma anche di proporsi come modello per una possibile conversione del sistema economico dominante in direzione della sostenibilità.

Il Fair Trade si propone come esperienza matura ed in espansione che pretende di offrire principi e pratiche in grado di affrontare in modo efficace gli obiettivi di riduzione delle disuguaglianze e di riconversione ecologica dell’economia, dei quali sono pieni gli accordi internazionali, e quasi vuoti gli elenchi dei risultati.

E che dimostra che è possibile fare commercio – e fornire ottimi prodotti – rispettando standard che promuovono benessere collettivo e sostenibilità ambientale, e limitando l’accumulo di potere e ricchezza individuale. Il contrario dell’estremismo “liberalizzante” che da decenni pretende di avere il monopolio nel dettare le regole dell’economia e del commercio.

In altre parole, il Commercio Equo fa ciò cui la politica sembra aver abdicato: “turba” i mercati, “regola” gli scambi, “vincola” i prezzi. Prezzo minimo garantito dei prodotti, salari minimi calibrati sul costo della vita, prefinanziamenti, risorse per benefit sociali, relazioni di lungo periodo, obbligo al rispetto di un insieme minimo di criteri sociali ed ambientali.

Non (solo) un manifesto di opposizione ideale all’economia dominante, ma pratica concreta applicata da oltre 3000 realtà produttive ed un milione di lavoratori in 70 paesi: il Commercio Equo e l’economia solidale «fanno bene a tutti», essendo un modello virtuoso e valido non solo per i piccoli produttori del Sud del mondo, ma per l’economia in generale.

* L’autore è presidente di Agices-Equo Garantito