La maggior parte riconoscibili dal loden verde, vocianti, a branchi, carichi di robe vecchie, dai vestiti ai pezzi di antiquariato, «vero affare», si dicono gli uni con gli altri chiamandosi a voce tra le bancarelle, gli italiani hanno invaso Londra. Poiché Capodanno cadeva di sabato, hanno preso d’assalto il mercato di Portobello che appunto ogni sabato si tiene lungo i 500 metri della via omonima, nel quartiere di Notting Hill. Hanno comperato tutto a prezzi incredibili, perché ormai Portobello è diventato uno dei mercati dell’usato più cari della città. Molti avevano abbandonato il loden per improbabili e improponibili giacconi indiani. Una giovane coppia, tipico aspetto da professionisti affermati, è riuscita ad aggiudicarsi un veliero semi antico per «sole» 150 sterline, cioè circa 245 mila lire. Le ragazze compravano vestiti indiani e messicani, gli uomini libri antichi, maglioni, giacconi, vecchie insegne di pub. «Un affare, gli dico, in Italia lo pagheresti perlomeno il doppio», era il commento che sentivi ad ogni bancarella.
Nel centro della città da Burberry’s, da Daniels, nei vari negozi della catena Scotch House, nel negozio di lane davanti al British Museum, tappa obbligatoria di tutti i turisti italiani, i nostri connazionali si comportano come i turisti di un paese ricchissimo la cui moneta abbia un grande potere di acquisto. A sera l’italiano è la lingua ufficiale parlata nei principali ristoranti del quartiere di Soho. A mezzanotte, a Trafalgar Square, più di centomila persone hanno salutato l’anno nuovo in una incredibile bolgia.
Il primo gennaio 1978, giornata fredda e grigia, Londra era deserta, quasi tutti i pub chiusi, pochi gli autobus. A sera, al «Rainbow» appuntamento importante per i punk, suonano i Ramones, forse il complesso più celebre del momento. Vengono dagli Stati Uniti e sono in Gran Bretagna per la terza volta. Completano la serata i Rezillos e i Generation X. Alle sei di sera davanti al teatro c’è già una lunga e disciplinata fila di ragazzi e ragazze. Colore prevalente il nero. Neri i giacconi di pelle, neri i pantaloni e le magliette o le camicie. Molti hanno i capelli sfolticciati malamente e tinti di rosso o verde.
Lo spettacolo inizia alle otto di sera e un’ora prima vengono aperte le porte. A gruppi di tre o quattro si va alla cassa per fare il biglietto. Il flusso viene regolato da un gigantesco nero con barba. Fatto il biglietto si supera un secondo sbarramento dove vengono perquisite le borse e controllati i biglietti. Gli uomini del servizio d’ordine, quasi tutti neri e sopra il metro e novanta, indossano giacche a vento rosse. L’atrio del «Rainbow» è simile a quello di una stazione. Ci sono vari spacci di birra e hot dog, due bancarelle che vendono dischi, magliette e poster dei complessi. Gli accessi alla sala sono bloccati e vengono aperti solo un quarto d’ora prima. Nel frattempo l’atrio e i corridoi del piano terra e del primo piano si riempiono. Alcune centinaia di ragazzi e ragazze bevono birra da grandi bicchieri di plastica che poi buttano per terra. Sono volti pallidi, scavati, visi non belli, tristi, una generazione senza storia. Si sente appena un brusio coperto dal suono dei dischi che proviene dalla sala.
Cominciano ad arrivare quelli che il biglietto lo avevano già. Sono più sofisticati, i loro giacconi neri e il taglio dei capelli sono di un elegante orribile. Gli altri, quelli che hanno fatto la fila, sembrano studenti o, nella maggior parte, gente che lavora. Non si sente ridere, non ci sono grida, canti. Bevono birra, birra, ancora birra, come in un rito. La fila davanti ai gabinetti è già lunghissima, il pavimento dell’ingresso è viscido e pieno di bicchieri vuoti e rotti. La sala comincia a riempirsi.
Entrare al «Rainbow» la prima volta vuol dire dedicare i primi cinque minuti allo stupore. La parete del palcoscenico è la facciata di un castello e di una cattedrale al tempo stesso. Ai lati ci sono due torri con i portoni che danno sulla sala. Il palco sembra l’altare maggiore di una cattedrale, in alto i fregi e l’enorme bocca del palco alta venticinque metri. Ai lati della sala, in alto, sono dipinti paesaggi orientali: in primo piano due pozzi veri, come quelli del presepe. Il soffitto, dipinto di azzurro, rappresenta il cielo di questa strana città orientale. Le stelle sono tante lampadine che ogni tanto si spengono. Sul palco una mostruosa serie di amplificatori e altoparlanti: nell’attesa dischi. Il rumore è così forte che colpisce allo stomaco, fa vibrare le poltrone. La sala è divisa a compartimenti stagni delimitati dagli uomini in giacca rossa. Per passare nei vari settori bisogna avere il biglietto. Sotto il palco sono schierati in dieci, i più grossi.
Cominciano i Rezillos, ma la sala resta in parte vuota. Nell’atrio saranno rimasti in 500, continuano a bere birra aspettando il complesso successivo. Sono i Generation X, gruppo punk autoctono. La sala si riempie e comincia a scaldarsi. La musica è cresciuta, quanto al rumore. Alcuni ragazzi e ragazze sotto al palco accennano ad alzarsi dalle poltrone per ballare, ma il servizio d’ordine si precipita su di loro.
Chi non smette subito viene portato fuori. Gli altri, tutti seduti, scandiscono il tempo ondeggiando la testa. La scena è allucinante perché questa musica se non è accompagnata dal ballo non ha ragione di esistere.
25 minuti di intervallo e poi tocca ai Ramones. Il loro ultimo disco ha la copertina nera e sopra lo stemma degli Stati Uniti con l’aquila imperiale che brandisce due missili. È intitolato Rocket to Russia. Il servizio d’ordine viene schierato in modo diverso, si capisce subito che è l’ora del ballo: infatti quando dal palcoscenico buio sbucano loro, i Ramones, tutti balzano in piedi e inizia l’ultima parte dello spettacolo. Chi balla in realtà si limita a spiccare dei salti, pressato dai vicini e dalle fila delle poltrone. Fa molto caldo e c’è un odore acre misto di polvere e sudore, la musica, molto più sofisticata di quella dei due complessi precedenti, viene sparata sul pubblico ai limiti della sopportabilità. Ogni forma di comunicazione è interrotta, ognuno salta e urla senza cercare la partecipazione del vicino. I quattro del complesso hanno un assistente ciascuno pronto a correre da dietro le quinte per asciugare il sudore e le chitarre tra una pausa e l’altra di pochi secondi.
Lo spettacolo non ha praticamente soluzione di continuità, giocato com’è tutto sull’incalzare del ritmo. I Ramones suonano mezzora, fanno tre bis, poi le luci si spengono: sono le undici e dieci. L’atrio è pieno di rifiuti, viscido per la birra versata. Loro, i ragazzi in giaccone e pantaloni neri, escono sudati in silenzio tra due ali di servizio d’ordine. Dall’altra parte della strada c’è la fermata dell’autobus, la fila è già lunga, due a due sempre in silenzio, capelli dipinti di verde. (4 gennaio 1978)