Staccando l’ombra da terra è il titolo dell’ultimo lavoro di Marzia Migliora: una commissione di arte pubblica nata dall’incontro e dalla corrispondenza dell’artista con alcune donne detenute nella Casa Circondariale di Rebibbia – Sonia A., Rossella C., Gioia M., Angela P., Roberta P. e Daniela Z.-, durante i difficili mesi di lockdown La condizione di isolamento particolarmente estremo che esse hanno vissuto a causa della pandemia, l’impossibilità di contatto con figli, mariti e genitori, ha evidenziato l’urgenza struggente della relazione con l’esterno, che nella riflessione dell’artista ha preso forma in un pensiero attorno all’ascolto.

LA NECESSITÀ DI FAR ASCOLTARE la propria voce per sentirsi in comunicazione con il mondo fuori prende forma in un’installazione sonora che condensa in sé ossimori fondamentali come dentro-fuori, visibile-invisibile, prigionia-libertà, intimo-universale, per trasmetterli con la potenza immaginativa, concettuale ed emotiva che contraddistingue sempre il suo pensiero e il suo fare artistico.
Costruita da una doppia fila di canne di organo poste alla stessa distanza delle sbarre di una cella, Staccando l’ombra da terra è pensata per essere attivata dallo spettatore: l’oscillazione di un’altalena al suo centro produce un movimento d’aria che fa suonare le canne dell’organo suggerendo la voce, fenomeno impalpabile eppure corporeo, unico eppure universale. E con essa, l’ascolto, soprattutto di coloro che non hanno voce, trovando quell’empatia e corrispondenza con gli altri e con il mondo al di fuori di noi. In questo gioco di rimandi e immaginarie condivisioni a cui ci esorta anche la frase incisa sul sedile, «vogliamo respirare la vostra stessa aria», risiede la sorprendente suggestione di questo lavoro.
Migliora traduce tutte queste riflessioni in un lavoro di gran leggerezza acchiappandoci nella seduzione di un’esperienza che condensa emozioni, ricordi, gioie e paure. Come ha scritto Hannah Arendt: «le opere d’arte sono cose del pensiero», non oggetti ma esperienze, fisiche e spirituali. E cosa è più poetico, più densamente emotivo e fisicamente coinvolgente dell’ andare in altalena, di quel dondolarsi che unisce insieme entusiasmo, memoria e desiderio…

MENTRE VOLIAMO attraverso le canne d’organo/sbarre della cella, ci riconnettiamo al nostro immaginario infantile, sperimentando paure e gioie di quella prossimità al volare intrinsecamente legata all’universale anelito di libertà a cui tutti tendiamo. È un’esperienza che accomuna noi, fuori, con le donne rinchiuse nella Casa Circondariale di Rebibbia a cui l’artista ha donato e installato in forma permanente una seconda versione dell’opera, invisibile al pubblico, come del resto invisibile è per loro l’installazione a Villa Borghese.
Partendo dalla condizione di tragica attualità Marzia Migliora realizza un’opera di stupefacente «inattualità», scavata nelle viscere del nostro tempo più buio, per restituirci l’esperienza del possibile con un lavoro che trasforma la sua densità semantica in potentissima poesia. Un’opera «intempestiva», contemporanea nel senso più profondo, un’opera fragile che ha a cuore la cura e la riflessione sulla libertà, necessità e desiderio ultimo della nostra condizione umana.

QUESTO È FORSE IL MOTIVO per cui la notizia della vandalizzazione dell’opera installata a Villa Borghese è particolarmente triste. «Questa mancanza di rispetto e di considerazione nei riguardi di un lavoro di arte pubblica – ha affermato l’artista -, ancora una volta mi dà occasione di riflettere sul valore della mia professione d’artista: credo che la strada da compiere per comunicare il valore dell’arte e far sì che la cultura sia un pilastro della nostra società sia ancora lunga e tortuosa e questo ragionamento, se da un lato è doloroso, rafforza in me una consapevolezza ancora più salda sulla necessità di fare arte oggi».