«È una crisi politica acclarata, ma le istituzioni reggeranno». Zalmai Zabuli ci riceve in un ampio salone nel nuovo parlamento, non lontano dal vecchio palazzo Darulaman.

Si riferisce allo scontro tra il presidente Ashraf Ghani e il primo ministro Abdullah Abdullah sull’esito delle presidenziali del 28 settembre. Poco meno di due milioni di votanti, così pare. E risultati preliminari contestati prima di essere annunciati.

Di fronte a Zabuli, sui due lati di un lungo tavolo di legno, trenta tazze di tè fumante e trenta uomini venuti da Jalalabad. «Tre giorni a settimana raccolgo i reclami della gente», spiega il titolare della Commissione del Senato per le lamentele. «Mafia, terre espropriate, abusi. Ma la maggiore fonte di corruzione è esterna. Viene dagli americani». Il negoziato con gli studenti coranici? «Un gioco delle parti». Con un nuovo capitolo.

I TALEBANI venerdì hanno accusato Washington di aver fatto saltare il banco negoziale per la seconda volta. La prima il 7 settembre, quando Trump ha dichiarato chiusi i negoziati, appena prima della firma di uno storico accordo. La seconda tra giovedì e venerdì scorsi. Quando per ore si sono accavallate le voci sullo scambio, preannunciato in diretta televisiva dal presidente Ghani, tra tre Talebani e due docenti: lo statunitense Kevin King e l’australiano Timothy Weeks, rapiti dalla rete Haqqani nell’agosto 2016 a Kabul.

«OGNI VITA UMANA MERITA di essere salvata, ma i tre Haqqani sono responsabili dei più sanguinosi attacchi nelle aree urbane. Hanno le mani sporche di sangue: la società chiede giustizia, non impunità» dichiara al manifesto Orzala Nemat, energica direttrice dell’Afghanistan Research and Evaluation Unit, accreditato centro di ricerca.

I due docenti occidentali avrebbero dovuti essere liberati in cambio di Anas Haqqani, figlio del fondatore del network Jalaluddin e fratello dell’attuale leader Sirajuddin, che è anche il numero due della Rahbari shura, il gran consiglio dei Talebani. Poi Haji Malik Khan, fratello del fondatore Jaraluddin, catturato nel 2011. Infine Qari Abdul Rasheed Omari, comandante militare nell’Afghanistan del sud-est. Alle spalle 12 anni a Guantanamo, ricatturato in Qatar nell’ottobre 2014 insieme ad Anas Haqqani. Responsabile del settore attentati-suicidi.

«Qualcuno dice che abbiano lasciato la base di Bagram, siano arrivati in Qatar ma poi, non è chiaro perché, siano stati rispediti indietro. Qualcun altro che siano rimasti a Bagram», sintetizza un interlocutore locale. Comunque siano andate le cose, lo scambio è saltato. Questione tecnica o politica?

È SOLO RIMANDATO, lasciano intendere i Talebani, che imputano agli americani il mancato rispetto dei patti. Difficile dire chi abbia tirato il freno. Lo scambio era frutto dell’attivismo diplomatico regionale dell’inviato americano Khalilzad e del via libera dell’establishment militare di Islamabad. Forse hanno contato anche le pressioni interne sull’amministrazione Ghani, che ha ingoiato «un boccone amaro per favorire la pace». Criticato per averlo avallato, ora che lo scambio è saltato Ghani fa sapere che l’accordo «va rivisto».

È l’altalena afghana. Quel che vale oggi non vale domani.

Il 3 ottobre per la Commissione elettorale i votanti alle presidenziali erano quasi 2 milioni e 700mila, il 2 novembre 1 milione 840 mila circa. Al centro dello scontro politico, la Commissione non ha ancora fornito i risultati preliminari. I candidati accusano brogli e irregolarità. I commissari sono divisi. L’Onu è accusata di imparzialità. «Si decide tutto a Washington», ripetono molti, anche tra ministri e vice-ministri.

A differenza del 2014, per ora Washington non ha tirato giù il carico diplomatico da novanta per risolvere l’impasse post-elettorale. Né Trump ha pubblicamente riaperto le porte del negoziato con i Talebani. Ma ha concesso la grazia a tre soldati statunitensi, ieri. Tra loro l’ex tenente Clint Lorance, già condannato a 19 anni per aver ordinato l’uccisione di civili afghani e il maggiore Mathew L. Golsteyn, accusato di omicidio volontario, sempre in Afghanistan.

L’accordo fatto saltare da Trump il 7 settembre prevedeva il ritiro cadenzato dei soldati a stelle e strisce. Che invece resteranno «per molti anni ancora», ha dichiarato pochi giorni fa il generale Mark Milley, portavoce del Joint Chiefs of Staff degli Usa. «La guerra non finirà fino a quando gli Usa non ritireranno le proprie truppe dall’Afghanistan», replica sicuro Zabuli dalla Meshrano Jirga, il Senato di Kabul.