E’ la vicenda di un poema visivo, Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno (Carocci, «Frecce», pp. 307, euro 26.00), il saggio a firma di Carlo Vecce che si segnala per la originalità e la compiutezza nella vasta forestazione bibliografica ora resa incontrollabile o comunque inflattiva dalle celebrazioni del centenario. Il film, che esce nell’estate del 1971, è sia un esito maturo di quello che Pasolini ha chiamato sei anni prima «cinema di poesia» in un celebre intervento al Festival di Pesaro sia l’incipit di quanto definirà Trilogia della vita nel letterale corpo a corpo che, dopo Il Decameron, egli traduce in immagini dai Canterbury tales (’72) e Il fiore delle mille e una notte (’74).

Il Boccaccio di Pasolini non è quello di Vittore Branca (se non per la filologia e la codicologia che può dedurre da Boccaccio medievale, la cui princeps risale al’56) ma è il prosatore classico della tradizione storicista, da De Sanctis a Sapegno, da ultimo riletto nei modi della auerbachiana Mimesis tra realismo «figurale» e «creaturale», come peraltro testimoniano le novelle prescelte, da quella di Andreuccio da Perugia a quella di Tingoccio e Meuccio: tale senso della corporeità, i cui apici sono il sesso e il riso, è il reagente necessario e insieme l’ultimo bene-rifugio al cospetto della società neocapitalista che il poeta viene intanto trattando (negli articoli sul Corriere della Sera che confluiranno in Scritti corsari e Lettere luterane immediatamente postumi) con le immagini del Genocidio delle culture particolaristiche, della Omologazione consumista e infine, globalmente, dell’Universo Orrendo. Infatti, in una lettera che accompagna il dattiloscritto della sceneggiatura, Pasolini scrive lapidario: «È un film sul popolo, di popolo e anche per il popolo».

Censendo con modalità lenticolare tutti i documenti disponibili, Vecce non solo ricostruisce nel dettaglio le fasi di ideazione, di realizzazione ed edizione del film ma dà conto della scelta di fondo e della ambientazione non a Firenze ma a Napoli, che pure fu il luogo del giovanile apprentissage del Boccaccio. Ma agli occhi di Pasolini, Napoli è la porta dell’Africa, dell’Oriente e del Terzo Mondo, è cioè un luogo non ancora adulterato e massacrato dalla cosiddetta civiltà dei consumi. Il poeta, che nel film tiene per sé il ruolo metalinguistico di un allievo settentrionale di Giotto mentre sta affrescando Santa Chiara, sente il bisogno di filmare un meraviglioso popolo di sopravvissuti, di ascoltarne le voci, gli strepiti, i canti. Insomma di immergersi in una civiltà che si manifesta in primo luogo nel gesto e nella semplice espressione corporea. Ha bisogno, dirà, di salvarli, e scrive Vecce in proposito che «Il Decameron è un sogno che guarda a Sud e a Oriente, al Mediterraneo, al grande mare salato».

Lo stesso nome di Giotto e del suo autobiografico vicario testimonia la natura creaturale e tridimensionale di un immaginario che Pasolini (e si veda la novella di Andreuccio) ritrova nel tufo giallo e ancora scrostato della Cappella Pappacorda oppure, reinventando i vicoli della contrada di Malpertugio, nei calanchi più vertiginosi di Caserta Vecchia: si staglia viceversa in una azzurra endiadi di cielo e mare lo splendido Oratorio della Santissima Annunziata, a Ravello, che ospita il set della novella di Masetto l’ortolano. Oltre che da classici della canzone partenopea, quali la struggente Fenesta ca lucive, l’acustica proviene da una sostanza fonica profonda e, in particolare, dalle registrazioni al magnetofono di Alan Lomax che visitò quei siti con Diego Carpitella alla metà degli anni cinquanta e va aggiunto che, in appendice al volume di Vecce, il parlato del film è finalmente addotto in integrale con criteri scientifici a emendamento della purtroppo corriva trascrizione in Pier Paolo Pasolini Trilogia della vita (a cura di Giorgio Gattei, Cappelli 1975, uscito nella pionieristica e meritoria collana di Renzo Renzi, «Dal Soggetto al Film»).

Va da sé che gli attori sono quasi tutti non professionisti, ragazzi bruni dai volti camusi e i ciuffi malandrini, né mancano i pasoliniani elettivi da Ninetto Davoli, un Andreuccio volitante di estri chapliniani, e Sergio Citti (un losco e indimenticabile Ciappelletto) a una Silvana Mangano ritratta nel panneggio della Vergine, come in un contrappasso celestiale e terminale, al centro del quadro vivente del Giudizio Universale che duplica il Giotto degli Scrovegni: ma non va trascurata Angela Luce nel ruolo di Peronella il cui nudo, quasi un hapax femminile per il regista, è di abbagliante luminosità.

Nel segno di Giotto e della sua bottega, ovviamente, sono i moduli figurativi adottati dal film quando il suo allievo settentrionale, saltellando su e giù per i ponteggi, cita negli abbozzi e nelle quadrature il Maestro delle Vele che lavorò in Assisi e nella stessa Santa Chiara, come sembrano attestare gli attuali residui degli affreschi; all’Alto Adige che invece il regista riserva alla nera apoteosi dell’ex Cepparello divenuto San Ciappelletto meglio si confanno taluni fiamminghi e specie il brulicante mortifero Brueghel della Lotta tra Carnevale e Quaresima, citato nella visione che il lestofante ha in punto di morte.

Da ricordare infine è la sortita nello Yemen per girare alcuni esterni più esotici, i quali permettono, alla stregua di un vero e proprio entr’acte, la realizzazione del cortometraggio Le mura di Sana’a, una gemma della filmografia pasoliniana, così come non va dimenticato l’apporto figurale degli antichi codici miniati che direttamente gli proviene dalle pagine di Branca.

«Anche nel Decameron – nota Vecce – la memoria dell’occhio ricorre con diverse modalità, già sperimentate in precedenza: il tableau vivant, con la ricostruzione situazionale di un’opera pittorica interpretata da veri attori; la citazione vera e propria, con la riproduzione esplicita dell’opera; l’allusione parziale (…). Le modalità possono anche essere contaminate tra loro, senza preoccupazioni di ordine filologico davanti alla congruenza temporale o culturale delle immagini rispetto alla storia rappresentata, e con l’aggiunta di suggestioni provenienti da altre arti, in particolare dal cinema». Nel Decameron la memoria del cinema è presente anche se meno che nelle opere d’esordio: Chaplin, come si è visto, è citato a oltranza nel bellissimo racconto di formazione di Ninetto, ma anche e soprattutto, per il passo narrativo e la misura sempre umanistica, nel film ricorre il Mizoguchi dei Racconti della luna pallida d’agosto (’53).

Tuttavia è come se Pasolini, a Napoli o nel remoto Yemen, si trovasse suo malgrado a filmare un principio della fine. Appena tre anni dopo, cinque mesi prima del suo assassinio, licenziando la prefazione al volume per la collana dell’amico Renzo Renzi, la intitola eloquentemente Abiura dalla Trilogia della vita. È il 15 giugno del ’75, giorno di elezioni amministrative e per crudo paradosso anche il giorno del primo straordinario successo elettorale del Partito comunista: qui il poeta non tanto rinnega il suo cinema quanto è indotto a rilevare la scomparsa degli esseri umani più amati, a denunciare che «‘la realtà’ dei corpi innocenti è stata violata, manomessa dal potere consumistico». Il sogno ad occhi aperti dell’allievo di Giotto si è estinto e perciò Pasolini si congeda giurando che, oramai, la vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.