L’attuale situazione carceraria, com’è stato già più volte rilevato, rappresenta un fattore di grave rischio di contagio all’interno delle istituzioni penitenziarie. Di qui l’iniziativa di Giovanni Fiandaca, Emerito di diritto penale, e di Massimo Donini, vicepresidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, di aderire, in ideale staffetta, allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti; iniziativa condivisa, per la prima volta, da circa 200 docenti universitari di materie penalistiche.

Tutto ciò implica che un discorso di più ampio respiro vada riservato alle ragioni dei detenuti, ridotti, per le condizioni in cui versano, ad ‘avanzi della giustizia’. da decenni, ormai, l’ispirazione al canone law and order ha fatto da supporto a prassi e legislazione, connotate in senso autoritario, per una sempre rinnovata esaltazione del carcere. Conseguenze immediate sono state il sovraffollamento e l’abuso della custodia cautelare o carcerazione preventiva, come viene più realisticamente definita in Costituzione la detenzione prima della condanna definitiva.

Per il sovraffollamento siamo stati più volte bacchettati da Strasburgo. Una situazione di degrado, di malessere, testimoniata dai frequenti suicidi in carcere e dalla pratica impossibilità di realizzare progetti di rieducazione, così come di cura. Ed infatti uno Stato civile deve favorire l’idea del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato. Al contrario assistiamo a un’esaltazione repressiva, tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti, come viene confermato dall’assenza di un incremento dei delitti denunciati.

Come da tradizione, la repressione finisce per orientarsi verso le fasce di marginalità via via emergenti: gli ‘oziosi’ e i ‘vagabondi’ attuali sono i tossicodipendenti e gli immigrati, preferibilmente di colore. Secondo il consueto, miope schema rigoristico-repressivo, con il ben noto bagaglio di intolleranza, illiberalità, sterile simbolicità, approssimazione, ad un contrasto legittimo, purché sempre rispettoso di regole di umanità, di pur allarmanti fenomeni criminali, si abbina una repressione di tipo carcerario ingiustificata e contraria ai principi costituzionali di riferimento.

Paradossalmente, più il carcere fallisce, più ne aumenta la richiesta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma essenzialmente ciò si verifica perché è ancora radicato l’equivoco – che un improvvido legislatore e parte dei giudici assecondano – dell’equazione carcere uguale giustizia, a cui si aggiunge quello insito nell’idea secondo cui più dura è la pena, maggiormente si realizza la giustizia.

Dovremmo immediatamente far fronte al sovraffollamento, sperimentando pene principali diverse da quella detentiva, in maniera tale da consentire condizioni di vita civili a chi resta in carcere, ovviando anche alle gravi carenze igienico-sanitarie, ma non solo, bensì creando le condizioni per un effettivo esercizio dei diritti alla cura, al lavoro ed all’istruzione.

Altrettanto immediatamente dovremmo inoltre sbarazzarci di tutti quegli arnesi rigoristici che affastellano il nostro ordinamento, a partire dalle varie ‘ostatività’ diverse dalla valutazione del percorso di rieducazione del detenuto, dalla eliminazione di forme di carcere duro, pur nel rispetto di eventuali esigenze di controllo stretto per casi particolari; e ciò all’interno di una radicale revisione del sistema delle sanzioni, magari a binario unico, che finalmente si liberi dell’ergastolo, questo retaggio di inciviltà che sicuramente contrasta con il principio della rieducazione e non solo con esso.

Contestualmente, si dovrebbe por mano ad una depenalizzazione ben più incisiva delle precedenti. Ma questo è unicamente il tracciato di una prima tappa. Successivamente, ma non troppo, si dovrà rimettere mano all’intero sistema penale, per renderlo vicino alle ragioni dell’uomo.