È difficile immaginare che mentre Rembrandt era intento a tratteggiare gli ultimi autoritratti, Spinoza ad annotare le proposizioni che diventeranno la sua Ethica, e Molière vedeva rappresentare per la prima volta Il misantropo, un Somniosus microcephalus di quasi sette metri, a tutt’oggi ancora vivo e vegeto, stava già perlustrando i fondali marini a nord del Circolo Polare Artico.
Eppure, che il grande squalo della Groenlandia (Eqalussuaq in lingua Inuit) possa superare i quattrocento anni d’età (nonché raggiungere la maturità sessuale a circa centocinquant’anni) diventando così il vertebrato più longevo dell’orbe terraqueo, l’ha dimostrato il test del carbonio-14 sui cristallini di alcuni esemplari, come hanno documentato Julius Nielsen et. al. in un articolo su Science dell’agosto 2016 (Vol. 353, N. 6300, pp. 702-704). Se in generale è vero che gli squali di profondità sono molto più piccoli di quelli che vivono in prossimità della superficie, lo squalo della Groenlandia rappresenta un’eccezione: può superare in lunghezza lo squalo bianco, ed è perciò il più grande squalo carnivoro del pianeta (lo squalo elefante e lo squalo balena sono più grandi, è vero, ma mangiano plancton).

NON SI TRATTA DI UN LEMARGO, o Somniosus pacificus, anche se i due animali si somigliano molto, la carne del lemargo è tra l’altro commestibile, mentre quella dello squalo della Groenlandia no, anzi, è addirittura velenosa, a meno che non venga fatta fermentare sotto terra per quasi sei mesi affinché ne vengano eliminate le tossine.
Si dice che l’effetto di queste tossine sia simile a quello di una grossa sbornia: i cani da slitta che mangiano di questa carne non sono più in grado di reggersi in piedi. Kæstur hákarl è il nome islandese del piatto tipico a base di «squalo fermentato», che si prepara sotterrando il pesce dopo averne eliminate testa e interiora e ricoprendolo inoltre di pietre fino a quando non si sente quel caratteristico odore di ammoniaca dovuto all’urea liberata dalla carne. Solo allora l’animale viene sfilettato e appeso a seccare al vento, ben lontano dalle abitazioni, a causa dell’odore.
Al kæstur hákarl – detto erroneamente anche squalo «putrefatto» – si accompagna in genere un bicchiere di acquavite. Come molte tradizioni gastronomiche, la lunga preparazione dello hákarl ha anche un significato rituale, che introduce il tempo nella continuità e addomestica l’estraneo della natura riconducendolo al quotidiano. E il grande squalo della Groenlandia sembra quanto mai depositario di una vita aliena, segreta, imperscrutabile, che ha bisogno di un rituale per essere avvicinata.

ATTORNO ALLA METÀ dell’Ottocento, il biologo britannico Edward Forbes, a seguito di una spedizione nell’Egeo, aveva sostenuto che non ci fosse vita nelle buie profondità marine, ma a smentirlo furono due ricercatori norvegesi che facevano base a Skrova, nelle Lofoten, Michael Sars e il figlio George Ossian, tra l’altro primo norvegese nella storia ad aver ricevuto uno stipendio statale come «havforsker», ricercatore marino, nel 1864. Nei mari che lambiscono le isole, dove lo squalo si muove silenzioso, già a centocinquanta metri di profondità l’acqua assorbe la luce e le piante che popolano i fondali vivono grazie alla chemiosintesi batterica invece che per fotosintesi.
Gli occhi dello squalo, fosforescenti nell’oscurità, sono in realtà quasi ciechi perché dei parassiti luminescenti si cibano delle cornee emettendo un alone verdastro utile ad attirare predatori di cui lo stesso squalo si ciba: un accordo reciprocamente vantaggioso. Per raggiungere questo vero e proprio monstrum – nel senso etimologico del prodigio –, i pescatori hanno bisogno di lenze della lunghezza di quasi quattrocento metri (lo spiega chi a dare la caccia a questo animale ha provato, ovvero il pescatore e scrittore norvegese Morten A. Strøksnes in Il libro del mare, tr. di Francesco Felici, Iperborea, Milano 2017) e questa caccia lenta e faticosa è quasi una discesa nel maelstrom del tempo, una vertiginosa evocazione della notte del mondo in cui l’acqua del mare era ventre materno di tutti gli esseri, uomo compreso, se è vero che, come già sosteneva il filosofo presocratico Anassimandro, gli uomini derivano dai pesci.

UNA CULLA PRIMORDIALE che però sarebbe difficile da restituire nella sua «altezza, grandezza, incontaminatezza, spietatezza e indifferenza», come scrisse il pittore e giornalista norvegese Christian Krohg quando nel 1895 si trovò a solcare le acque Vestfjord. I due milioni di anni di storia evolutiva dello squalo, il suo aspetto inquietante e il veleno delle sue carni sembrano quasi un ammonimento a non violare il segreto che si intuisce al fondo di quella vertigine, a mantenerlo intatto.
Ne sapeva qualcosa anche Olaus Magnus, umanista e geografo svedese a cui si deve nel 1539 una Carta marina et Descriptio septemtrionalium terrarum, ovvero una carta geografica abbastanza attendibile dell’Europa del Nord, dalla Groenlandia meridionale alle coste baltiche della Russia, terre che all’epoca erano quasi completamente sconosciute in Europa meridionale.

MA L’OPERA MAGGIORE di Olaus Magnus è la Historia de gentibus septentrionalibus, in ventidue libri, in cui abbondano le descrizioni dell’ambiente naturale, della geografia, dei fenomeni meteorologici e delle correnti marine. Gli ultimi sei libri sono dedicati agli animali domestici e selvatici presenti in Svezia, tra i quali anche i mostri che all’epoca si credeva popolassero gli abissi marini, credenza che forse aveva un fondamento. L’opera di Olao Magno fu tradotta e pubblicata in tutte le principali lingue europee (in italiano Storia dei popoli settentrionali. Usi, costumi, credenze, traduzione e scelta di Giancarlo Monti, Rizzoli, 2001) e costituì a lungo il principale testo di riferimento sulla Scandinavia e sui popoli scandinavi.
È ancora Olao Magno che racconta anche del famoso Kraken, il celebre mostro della mitologia norrena, reso famoso dalla letteratura inglese del XIX secolo (es. Walter Scott) nonché oggi dal cinema, rappresentato come un enorme cefalopodo dai lunghissimi tentacoli. Sembra insomma che la vita nel fondo del mare sia molto più ricca ed entusiasmante di quella sulla terraferma.

MIGLIAIA DI STRAORDINARIE creature si aggirano al di sotto del nostro naso, senza che noi lo sappiamo, e la vita animale sulla terra è ben lungi dall’essere stata esplorata nella sua interezza. Gran parte di ciò che ancora non sappiamo sta proprio sul fondo del mare, convinzione, questa, che condividono tanto i biologi quanto i romanzieri, se è vero che tra coloro che si lasciarono affascinare dall’opera del summenzionato Sars padre ci fu in primo luogo Peter Christian Asbjørnsen, scrittore e collezionista di fiabe del folklore norvegese.
Zoologo di formazione, Asbjørnsen aveva come modello proprio Sars quando nel 1853 scrisse Bidrag til Christianiafjordens litoralfauna (Contributo alla fauna costiera del fiordo di Christiania). I risultati degli studi sulle stelle marine di Asbjørnsen e i crinoidi di Sars figlio furono ripresi dallo zoologo inglese Charles Wyville Thomson, che studiò i fondali delle acque scozzesi nel 1864 e poi prese parte alla prima vera spedizione moderna, nel 1872, con un equipaggio di duecentosettanta elementi nella Hms Challenger intorno ai mari del globo.
I risultati della spedizione della Challenger costituirono la base della moderna oceanografia, che descrive i fondali marini come straordinari e meravigliosi, dai paesaggi del tutto simili a quelli della terraferma, con vallate, montagne e colline ancora inesplorate.