Mentre ci approssimiamo, con scarso interesse culturale e con ancora minore convinzione intellettuale, alle celebrazioni del centenario della Grande guerra, l’evento che più di altri segnò tangibilmente la coscienza della «modernità», dando ad essa quella forma definitiva di luogo della mobilitazione sociale e di tempo della mobilità collettiva, che poi la fabbrica porterà a potenza ennesima, ci si torna ad interrogare sulla sua natura periodizzante.

Tralasciando i prevedibili profluvi di retorica patriottica, parte stessa del dispositivo di neutralizzazione delle coscienze nell’epoca in cui alla nazionalizzazione delle masse si accompagna il loro sacrificio tra campi di battaglia e spazi di lavoro, ciò che riacquista significato è l’impatto che un fenomeno bellico di portata industriale, vera e propria totalità, anticipatrice, non a caso, dei successivi processi di radicale mutamento delle società continentali, ha avuto sul lungo periodo. Un periodo che di fatto è andato concludendosi solo con 1989.

La Prima guerra mondiale fa coincidere i processi di cittadinanza con il ricorso alle armi; neutralizza il conflitto sociale per poi esserne, a sua volta, annientata (come avvenne con la Rivoluzione d’Ottobre); segna il superamento della distinzione tra civile e militare, due campi che si sovrappongono quasi fino a coincidere; cancella la separazione tra sfera pubblica e sfera privata, così come invece era venuta determinandosi nelle coscienze borghesi durante l’Ottocento; si manifesta come proscenio, spettacolo e tragedia senza fine, pretendendo un suo pubblico e una partecipazione in prima persona da parte di un grande numero di individui nel momento stesso in cui nega alla radice il valore della soggettività; si dà una natura industriale, vera radice totalitaria dell’agire bellico, chiamando ad una mobilitazione sistematica risorse, persone ma anche pensieri, idee ed emozioni.

Il consumo instabile

La Grande guerra è quindi un complesso di fenomeni troppo stratificati per essere ricondotti alla sola dimensione militare e bellica, ovvero ai suoi effetti geopolitici. Se spazza via la vecchia configurazione dei poteri imperiali, celebrando la centralità degli Stati-nazionali su base etnica, tuttavia non sostituisce al quadro precedente assetti certi e condivisi. È in realtà l’avvio di un percorso di fluidificazione politica che sarebbe poi stato sancito, in tempi a noi molto più prossimi, dalla globalizzazione socioeconomica, con la crisi dell’idea stessa di sovranità nazionale. La società di massa, si sarebbe poi rilevato, se si basa su un dato quantitativo (il numero) richiede non di meno una permanente trasformazione, una movimentazione costante, una dialettica continua tra costruzione e distruzione di cose e persone.

Alla fine dei combattimenti (ma non certo delle contrapposizioni, animose e rancorose), nel 1918 non subentrano una pace come quella di Westfalia, del 1648, o un equilibrio conservatore, quale quello scaturito dal Congresso di Vienna del 1815, bensì un sistema precario, siglato a Versailles, e destinato, da subito, a costituire il fertile terreno per le successive rivalse. Non di meno, il determinarsi di una condizione di instabilità permanente, non solo avrebbe innescato le dittature europee, ma avrebbe fornito le condizioni migliori per l’espansione del ciclo produttivo fordista, basato sul trinomio produzione-consumo-distruzione sotto l’indice della saturazione dei mercati. Al centro di questo coacervo di elementi, e di altri ancora, c’è l’esperienza materiale del combattimento di massa, della vita in trincea, ma anche della mobilitazione assidua nelle fabbriche-caserma, così come della presenza costante della morte come dimensione collettiva. Intorno a questi fatti, condivisi da milioni di uomini e donne, si riarticolò un immaginario comune destinato a durare a lungo e a offrire esiti imprevedibili. Il fascismo, tra questi, ma anche e soprattutto il senso dell’alienazione, della reificazione, dell’estraneità, della dissonanza cognitiva e percettiva che fuoriuscivano definitivamente dai luoghi di lavoro per diventare patrimonio di un’intera generazione, formatasi a diretto, se non esclusivo, contatto con le logiche della sopraffazione bellica.

La ristampa dell’apprezzato e ormai conosciutissimo lavoro di Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale (il Mulino, Bologna 2014, pp. 308, euro 14), la cui versione originale data al 1979, offre quindi l’opportunità di riannodare alcuni fili smarriti, in previsione – e quindi in risposta – al tripudio di luoghi comuni che, inesorabilmente, saranno offerti da certa pubblicistica quando lo stanco centenario toccherà, in ciò obbligato dalle circostanze celebrative ed encomiastiche, alcune date.

Il primo assunto del testo è che la guerra moderna ha assai poco da condividere con la logica della scarica pulsionale, ossia la liberazione degli istinti belluini e vitalistici, e ben di più con la dinamica che connette l’istigazione (alla forza) alla repressione (dell’individualità). Questo nesso era il vero centro della vita del fante in trincea, costituendo il nucleo della sua formazione non solo alle armi ma anche all’idea di sé come di cittadino in quanto «servitore della Patria». Buona parte degli eventi bellici, infatti, si connotarono come insieme di tattiche difensive, volte a contenere l’avversario più che a distruggerlo.

Tra realtà e mitologia

La lunga durata del conflitto, così come la sua soluzione politica, avvenuta nel novembre del 1918, prodotto più dello sfiancamento tedesco che non dello sfondamento alleato, rivela peraltro le dinamiche di fondo, che avevano accompagnato la formazione e il consolidamento di una generazione cresciuta al fronte non solo in virtù dei combattimenti bensì delle corvée alle quali erano sottoposti tra uno scontro e l’altro. L’esperienza della trincea rimanda essenzialmente a questa alienante ripetitività, alla quale si alternava il momento dello scontro armato come punta di un iceberg fatto di violenza istituzionale ma anche e soprattutto di servitù quotidiana. L’orizzonte dell’esperienza è perennemente sospeso tra due estremi, la paura e la noia, l’angoscia e la quiete, lo scatto e lo stallo.

All’interno di questo contenitore germinano – quindi – sia il senso del disincanto che la ricerca di una dimensione vitalistica, entrambi destinati a pesare politicamente nel dopoguerra e ad orientarne pesantemente gli indirizzi di fondo. La Grande guerra segna, da questo punto di vista, un trapasso collettivo, tanto più potente in quanto legato agli effetti amplificatori dei sistemi di comunicazione di massa che nel conflitto trovano un’occasione di affinamento tecnico e di espansione della sfera di influenza. La linea di separazione tra realtà e mitografia viene qui varcata definitivamente, attraverso la propaganda, che diventa lo strumento per condizionare non solo le scelte di circostanza ma il modo di percepire se stessi.

La vera ombra che accompagna l’esperienza del giovane fante è però quella della morte, che pervade di sé ogni anfratto della sua esistenza, divenendone una sorta di reciproco inverso quotidiano. La sua presenza, e pervicacia, derivano dal fatto che l’orizzonte della guerra tecnologica cancella definitivamente qualsiasi residuo romantico, legato all’idea del duello a viso aperto, consegnando i combattenti, prima ancora di farli morire, alla percezione dell’invisibilità del nemico (che essi vivono come propria irrilevanza), poiché celato allo sguardo dalle trincee; alla condizione di formiche, obbligate a strisciare sulla terra, a condividerne il fango e ad adattarsi alla sua mutevole morfologia, seguendo i tracciati interminabili delle trincee; alla supremazia delle macchine e delle tecnologie che sembrano estendere e proiettare più aspetti delle officine sui campi di battaglia.

Se per una parte dei combattenti il conflitto avrebbe dovuto segnare il superamento delle convenzioni sociali e il congedo dai vincoli del lavoro subordinato e della società alienante esso, in realtà, enfatizzò in tutti i suoi aspetti la dimensione industrialista del confronto, rivelando quanto non fossero gli uomini a crearlo e rigenerarlo con la propria volontà, essendo semmai loro per primi sopraffatti dalla sua cornice rigorosamente tecnologica. La violenza devastante dell’artiglieria ne è l’ossessivo riscontro.

Il tempo quotidiano

Presentata come una catarsi, una rigenerazione radicale degli spiriti, la Prima guerra mondiale quasi da subito si smaschera, costringendo una quantità gigantesca di coscritti, di tutte le nazioni, dentro gli obblighi di un’azione collettiva dove sono le economie a muovere le persone come delle pedine. La tecnica perde la sua ingenua idealizzazione di musa del progresso sociale e civile, diventando l’elemento autonomo che detta le condizioni di sopravvivenza ad esseri umani sempre più spesso rassegnati ad un destino di sopraffazione. Anche da questa condizione, che contrassegna l’insieme dei combattimenti, lievita e si consolida la percezione, condivisa dai più, di essere le vittime di un atto di espropriazione.

Quella che deriva dal non potere incidere in alcun modo non solo sulle grandi scelte ma anche e soprattutto sulla propria quotidianità. Il tempo della guerra, quindi, sembra sempre più contraddistinto da una sorta di fatale inerzialità, trattandosi di un evento autonomo, che si impone, per poi precipitarvi, sulla testa di tutti. Queste, e molte alte, sono le riflessioni che Eric J. Leed consegna al lettore italiano.

Significativo è senz’altro lo sforzo di immedesimazione che le pagine del suo libro offrono a chi intenda calarsi nella realtà percettiva e cognitiva dell’esperienza della guerra, nonché della sua rielaborazione tra i veterani e i reduci. Non di meno, nell’equilibrio dei diversi giudizi che formula, costituisce un valido deterrente rispetto a quella storia politica, giocata sui grandi numeri, che ritiene che i fatti possano essere intesi, raccontati e rielaborati solo partendo dall’alto, ossia da chi li ha causati e gestiti, lasciando che poi a pagarne pegno fossero masse indistinte di individui calcolati come mere statistiche.