Lunedì 4 ottobre scorso ci siamo sentiti smarriti quando Facebook, Instagram e Whatsapp si sono spenti per ore. Siamo ormai dipendenti dall’infrastruttura della comunicazione che il digitale ci mette a disposizione, almeno laddove c’è la disponibilità energetica.

Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, componente del suo civic integrity team, ha reso disponibili recentemente al Wall Street Journal dei documenti interni a Facebook sui quali ha poi discusso il 5 ottobre in audizione davanti al Senato americano. Tali documenti provano quello che noi utenti delle piattaforme digitali sappiamo bene, ma che sempre ci sorprende: l’organizzazione delle informazioni privilegia quelle più divisive, che incitano all’odio e amplificano la disinformazione.

Sui social riteniamo di trovare quello che ci interessa e ci piace di più, ma la scelta dei post mostrati dipende dagli algoritmi di ranking. Nel 2018, dopo una grande crisi, Facebook li ha modificati con l’obiettivo di incrementare le interazioni sociali più ‘significative’ (more meaningful social interaction). Nel 2017 gli utenti erano diventati più passivi. La modifica era stata pubblicizzata come un modo per sfavorire fonti informative professionali che potevano diffondere disinformazione. Il nuovo meccanismo privilegiava i contatti più vicini e la capacità dei post di spingere alla reazione, apprezzando, commentando o condividendo i contenuti: era l’engagement-based ranking, l’ordinamento dei post basato sulla capacità di provocare una reazione attiva.

Per catturare l’attenzione il contenuto doveva essere sensazionalistico e divisivo (outrage o rage bait). La visibilità aumentava quando le informazioni, non importa se vere, inducevano rabbia e indignazione. L’obiettivo era produrre reazioni e quindi massimizzare i profitti, indotti dall’aumento della permanenza sulla piattaforma.

Durante le elezioni americane Facebook aveva introdotto correttivi per evitare gli esiti più perversi di questa strategia di marketing. Il civic integrity team, che si era occupato di intervenire sull’algoritmo per mitigarlo, fu smantellato appena finite le elezioni, perché aveva corrisposto a una riduzione dei tempi di permanenza sulla piattaforma, con conseguente riduzione minima dei ricavi.

La difesa di Zuckerberg contro la possibilità di intervenire sulla comunicazione arrabbiata e divisiva sulla piattaforma è che si tratti di tutelare la libertà di espressione delle persone. Ma c’è una grande differenza tra libertà di espressione e diritto alla visibilità. Questo equivoco deriva dalla confusione tra la dimensione tecnica dell’infrastruttura di comunicazione rappresentata dai social network e la dimensione editoriale dell’algoritmo di ranking che si utilizza per decidere sulla diffusione delle informazioni.

Sebbene non ci sia un palinsesto, né una prima pagina e l’organizzazione dei contenuti sia personalizzata sulla profilazione degli individui, nelle piattaforme social si esercita una scelta sulla visibilità dei contenuti che è una decisione editoriale, sia pure delegata all’algoritmo. L’unico scopo è quello di massimizzare i profitti, anche a danno della coesione sociale e politica.

Secondo Haugen, è necessario reclamare la trasparenza di questi strumenti e consentire un audit pubblico. Questo sarebbe un punto di partenza, sebbene non sufficiente. Bisognerebbe garantire il pluralismo e moltiplicare le opzioni, intervenire sulla alfabetizzazione digitale e la consapevolezza di chi li usa e regolamentarne l’accesso. Sappiamo, per esempio, sempre dai documenti interni a Facebook, che un’adolescente su tre è angosciata dalla comparazione sociale sui corpi che avviene su Instagram, tanto da sperimentare depressione e senso di inadeguatezza, in alcuni casi disturbi alimentari e autolesionismo.

C’è poi la questione del progressivo affievolirsi della distinzione tra mondo fuori dai social e mondo digitale. Da sempre le infrastrutture di comunicazione influenzano la nostra percezione; il digitale non fa eccezione. Facebook sta lavorando a progetti di realtà virtuale come Metaverse, una specie di ambiente virtuale fantascientifico in cui svolgere riunioni di lavoro; oppure Ray-Ban Stories, un tentativo di riuscire là dove Google ha fallito con Google Glass, oltre a un più modesto programma di propaganda come Project Amplify, di agosto scorso, nel quale cerca di incrementare la visibilità di notizie e storie positive relativamente a se stesso.

Zuckerberg sostiene che Facebook non è un monopolio perché è in concorrenza con tutte le altre modalità di comunicazione tra le persone. Verrà, forse, un momento in cui potrebbe essere molto difficile distinguere tra le interazioni faccia a faccia e quelle a distanza. In vista di questo scenario, che speriamo lontano, ma che non è impossibile, sarà bene che non ci sia una sola azienda in controllo delle interazioni a distanza e soprattutto che queste non siano governate dal profitto basato sulla pubblicità personalizzata.