L’artista algerino Massinissa Selmani si è assunto il compito di svelare scenari paradossali, tragici e, nonostante tutto, esilaranti. Ridere (o far ridere) è una cosa seria, esplosiva e liberatoria che capovolge le regole di una quotidianità drammatica (di questo del resto hanno trattato filosofi, scrittori, poeti e intellettuali prima e dopo Baudelaire e Pirandello).
La mostra Carte Blanche. Giovani Artisti dal Nord Africa, curata da Silvia Cirelli alla galleria Officine dell’Immagine di Milano (visitabile fino al 6 gennaio prossimo) è una sintesi di questo di vedere il mondo, ma è soprattutto «la messa in discussione della verità oggettiva delle cose», come scrive la curatrice.

DSC_0010 - Massinissa Selmani (foto Manuela De  Leonardis)
Foto di Manuela De Leonardis

Reduce dal successo alla 56/ma Biennale di Venezia, nell’ambito della quale ha ricevuto una menzione speciale per la sua partecipazione alla mostra centrale All the World’s Futures, curata da Okwui Enwezor, nonché dalla partecipazione all’ultma Biennale di Lione, Massinissa Selmani (Algeri 1980, vive e lavora a Tours, Francia), racconta con entusiasmo la pratica del disegno (suoi mentori sono Saul Steinberg e Honoré Daumier) che è alla base del suo linguaggio artistico. «Colleziono tantissimi giornali – spiega – Generalmente prendo tutto quello che vedo. Immagini che arrivano da tutto il mondo. Ho anche moltissime agendine su cui disegno ogni giorno. Lavoro sempre con la carta da ricalco. Uso molto lo scotch che mi permette di spostare, girare i disegni, cambiare la prospettiva. Prima di iniziare a disegnare, ci penso, lascio decantare l’idea. Ci torno su dopo un paio di giorni per vedere se quell’idea possiede ancora una sua forza. È un processo piuttosto lungo. Non credo nell’opera che nasce in maniera spontanea. Almeno, non è una modalità che mi appartiene».

Lei è nato e cresciuto ad Algeri, ma appartiene all’etnia cabila che ha una sua propria lingua e scrittura. C’è traccia di queste radici berbere nel suo linguaggio artistico?
Penso di sì. La lingua cabila è il primo idioma che ho parlato. Per strada ho imparato anche l’arabo algerino e, contestualmente, il francese. Algeri, dove sono cresciuto, è un punto d’incontro di realtà culturali e linguistiche, ma soprattutto la città presenta tutta una serie di elementi – tragici e comici – che si vanno ad intersecare quotidianamente. La mia famiglia è tornata, poi, in Cabilia, nella città di Tizi Ouzou, che è caratterizzata da un contesto politico molto particolare. Certamente questo mi ha permesso di riappropriarmi delle radici e il mio lavoro ha restituito quell’identità. Fatico però a definire la lingua cabila la mia madrelingua, perché anche l’arabo algerino mi appartiene. Queste diversità mi portano a riflettere, rivedere e rielaborare anche il mio senso di appartenenza, che resta comunque così forte e radicato.

L’arte è stata una vocazione fin da bambino, ma solo dopo la laurea in informatica ha deciso per il trasferimento a Tours, dove nel 2010 ha conseguito il diploma di arti plastiche alla Scuola Superiore di Belle Arti. Relazionarsi al linguaggio dell’arte contemporanea, soprattutto concettuale, è stato uno shock. In che modo è riuscito a trovare un equilibrio tra il mondo di provenienza e quello di approdo?
Ho studiato informatica in Algeria e poi nel 2005 sono andato in Francia, dove ho iniziato gli studi. Quando sono arrivato a Tours i miei referenti erano la pittura del XIX secolo, soprattutto quella algerina e, come diceva prima, l’arte concettuale mi era totalmente sconosciuta. È stata come una scossa. L’incontro con il disegno è avvenuto in modo naturale, è stato qualcosa di necessario: il mezzo che mi ha permesso di trovare fin dal principio la mia via, nonché di conoscere anche il lavoro di altri artisti significativi come Victor Burgin, Matt Mullican, Saul Steinberg, che usano il disegno insieme ad altre forme artistiche, mettendole a confronto o facendole convivere. Grazie a loro ho capito cosa s’intende per arte concettuale. Anche se personalmente non mi ritengo un autore di questa corrente. Attraverso il disegno ho cominciato ad interessarmi alla fotografia, mezzo che benché non pratichi mi ha portato anche in altre direzioni.

Massinissa Selmani, Metamorphes, (detail)  2012-2015
Massinissa Selmani, Metamorphes, (dettaglio) 2012-2015

Qual è il rapporto tra disegno, animazione e fotografia?
Il mio primo gesto artistico, quando ero adolescente e vivevo in Algeria, era quello di sfogliare le pagine dei numerosi giornali che comprava mio padre. Ogni giorno la prima cosa che facevamo tutti noi algerini – erano gli anni del terrore e vivevamo nella paura e nell’angoscia – era sfogliare il quotidiano, andare direttamente alla pagina umoristica, farci una sana risata, e solo dopo tornare indietro con una carica in più per leggere i fatti di cronaca e l’attualità. Erano quotidiani francofoni come Liberté, Le Matin, Le Soir d’Algérie, perché mio padre non leggeva l’arabo letterario. Da lì ho iniziato ad appassionarmi soprattutto alla fotografia documentaria e al linguaggio documentario in generale, quindi anche filmico. Alla fine, sono arrivato a rendermi conto che il disegno rappresentava la prima – e più rilevante – forma di documentazione, attraverso cui si possono sperimentare varie altre narrazioni. La mia, comunque, è sempre una documentazione in cui è molto presente la finzione. Tutto parte sempre dai ritagli di giornale che accumulo e conservo nel mio studio. Mi affascinava prendere cose che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro e partire da lì per creare altro. Amo produrre qualcosa che riproduce.

Tornando indietro al suo vissuto personale dei tempi in cui viveva in Algeria, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, nella serie «Les métamorphes» (work in progress che viene condotto dal 2012, «ndr») e in altri disegni, più che descrivere un quotidiano in cui è sempre presente la violenza – alcune volte sottintesa altre esplicita, con i personaggi costantemente in azione – riesce a dare visibilità a una gamma di emozioni: ribellione, rabbia, paura…
La serie Les métamorphes è un po’ particolare, perché parte da una ricerca sulle uniformi di varie epoche di soldati, doganieri e altri funzionari. Mi sono documentato facendo ricerche su internet e sui libri. Alcune uniformi mi sono sembrate del tutto assurde e pazzesche. Forte di questa considerazione, ho deciso di prendere informazioni un po’ da un giornale e un po’ da un altro, cose completamente distanti tra loro per arrivare a creare il mio lavoro. Ho usato la carta da ricalco, traslucida, sovrapposta ai ritagli di giornale, perché questo tipo di carta ha la capacità di assorbire la violenza delle azioni per restituire immagini che arrivano a essere persino dolci. È anche un gioco che mi porta al passaggio all’animazione, perché la carta da lucido si muove, a volte copre e altre invece non ci riesce.
Mi piace molto mettere a confronto il lato comico e quello tragico, così come avviene anche nella letteratura franco-algerina che sento molto vicina, proprio perché crea distanza tra l’aspetto apparentemente allegro della società e il fondo tragico, permettendo di entrare meglio nella situazione e analizzarla. Diversamente la fotografia, per me, crea distanza, ad eccezione di quella utilizzata per la stampa e dal disegno, che azzera il distacco emotivo.

Parlando di letteratura franco-algerina, viene in mente Yasmina Khadra. Quali sono i suoi scrittori preferiti?
Conosco bene i romanzi di Yasmina Khadra, ma sono più interessato a un autore come Chawki Amari, cronista di un quotidiano algerino, in particolare al suo libro L’Âne mort, scritto meravigliosamente, che contiene una serie di riflessioni critiche e filosofiche sull’idea del viaggio e sull’Algeria. Una scoperta recente è Amara Lakhous, scrittore algerino che vive a Roma e scrive in italiano. Ma certamente è importante anche Mouloud Mammeri, autore della Cabilia, attivo negli anni ’50.

In «1000 villages», esposto per la prima volta alla Biennale di Venezia, ha raccontato l’utopia dell’ideologia socialista algerina degli anni ’70 che riponeva completa fiducia nella rivoluzione agraria e industriale. Ritiene che in un’epoca come la nostra si possa ancora credere negli ideali politici?
Due anni e mezzo fa sono stato in Algeria, in vacanza dai miei genitori. Leggendo un reportage di un giornalista sullo sviluppo dei villaggi sorti negli anni ’70, ho scoperto una realtà di cui non conoscevo affatto l’esistenza. Questi villaggi della rivoluzione agrari sono stati dimenticati da tutti. Mi sono documentato e ho incontrato il sociologo e architetto algerino Djaffar Lesbet, autore del saggio Les 1000 villages socialistes en Algérie. Ho trovato interessante che le persone, anche mio padre con cui mi sono confrontato, ricordassero questi villaggi quasi come una leggenda. Ufficialmente, non è mai stato affermato che il progetto sia stato abbandonato.
La parte più interessante, per me, è stato vedere come l’ideologia si fosse andata a scontrare con la realtà e come questa avesse avuto la meglio sulla prima. Dopo l’indipendenza, il governo algerino si era riappropriato di molta terra che i coloni francesi avevano preso agli algerini e che andava ridistribuita tra il popolo. C’era, poi, l’idea di far uscire dalla miseria i poveri coltivatori algerini e farli crescere nel benessere socialista. Ma tutto ciò non avvenne. Parlando con il sociologo, ho appreso che le persone volevano soltanto avere una vita un po’ più degna. Discutere del progetto socialista con loro – molti non sapevano né leggere né scrivere – lasciava il tempo che trovava. Naturalmente, c’era anche chi era in grado di capire e andare a fondo dell’idea. Ad ogni modo, quell’esperimento non ha funzionato, anche perché si era voluto imporre delle norme uguali per tutti.
Alla fine si è arrivati a costruire dei villaggi postumi per i resistenti algerini che non sono altro che monumenti. Sicuramente, studiare quel momento mi ha aiutato a capire meglio quello che sta succedendo ancora oggi in Algeria.