Einstein riteneva che lo scorrere del tempo, la sensazione di passare da un istante a quello successivo, fosse un’illusione derivata esclusivamente dalla percezione umana; il cosiddetto flusso del tempo sarebbe in realtà più simile a un gigantesco blocco di ghiaccio in cui tutti gli istanti sono per sempre congelati al loro posto, come i fotogrammi di un film. Questo è anche il presupposto del monumentale romanzo di Alan Moore, Jerusalem (traduzione di Massimo Gardella, Rizzoli, pp. 1540, euro 39,00) – «più lungo della Bibbia e, spero, più socialmente utile», ha detto l’autore.

Già in Watchmen (unico graphic novel inserito dalla rivista «Time» nella lista dei cento migliori romanzi di tutti i tempi) Moore aveva creato un personaggio in grado di esperire contemporaneamente passato, presente e futuro, ma in Jerusalem innalza su quest’idea un’immensa cattedrale letteraria, un’epopea visionaria e poliedrica organizzata in tre libri, che esplora le implicazioni di un universo totalmente predeterminato, dove il libero arbitrio non esiste e, di conseguenza, «tutte le religioni hanno ragione, che vuol dire che nessuna ce l’ha».

In questo romanzo, indubbiamente il suo magnus opus, Moore si adopera, nientemeno, che a «dimostrare l’inesistenza della morte»: se ogni istante è eterno, dopo la morte la coscienza non può che tornare al principio, ricominciando la vita da capo come un film proiettato di nuovo dall’inizio, così che «l’immortalità vale anche per ogni miserabile e sciagurato». In questo senso, nell’universo di Moore «ogni area dismessa è la città dorata», ogni luogo è Gerusalemme.

Sebbene non si allontanino dai confini di Northampton, città natale dello scrittore e centro esatto dell’Inghilterra, le vicende del romanzo si sviluppano dal big bang fin quasi alla morte termica della terra, passando attraverso il medioevo e la rivoluzione industriale, fino agli sconvolgimenti climatici che ipoteticamente avverranno nel prossimo futuro. Nella cosmologia di Moore esiste un piano astrale chiamato Mansoul (letteralmente «anima dell’uomo»), una sorta di aldilà regolato dai Costruttori – figure biancovestite che ricordano gli angeli della cultura giudaico-cristiana e hanno il compito di erigere gli «angoli» delle architetture del nostro mondo (Moore gioca spesso con l’assonanza tra i termini «angeli», «angoli» e «Angli»). Anche le traiettorie angolari delle palline durante le partite di biliardo dei Costruttori decidono le sorti delle vite umane.

Il secondo libro di Jerusalem si svolge in questo aldilà dalle basi scientifiche, che nella penna di Moore diventa un mondo fantastico di geometrie impossibili, popolato da demoni, angeli, fantasmi e rough sleepers (gli «insonni» che a volte si ritrovano a vagare come sonnambuli per Mansoul) – una panoplia di effetti speciali che non ha niente da invidiare al Paese delle Meraviglie inventato da Lewis Carroll o alla Flatlandia di Abbott.

La nostra realtà, infatti, non sarebbe altro che una sorta di planimetria, o proiezione ortogonale, dello spazio pluridimensionale «Di Sopra»; per questo, osservando il mondo da Mansoul, si ha la sensazione di «avvicinare gli occhi alle vignette dei fumetti americani»: con Jerusalem Moore ha letteralmente trasformato lo spazio-tempo einsteiniano in un fumetto – ogni vignetta diventa un istante nel blocco immutabile dell’universo, con i vivi «immersi nel budino solidificato del tempo, soltanto convinti di muoversi».

Valenze politiche
O, se si vuole, l’ex fumettista è riuscito a trascendere lo spazio piatto e limitato della vignetta attraverso una lingua ricchissima, sfaccettata e dai colori sempre cangianti: non a caso nel romanzo la pittrice Alma Warren, versione femminile dell’autore, realizza una mostra su una serie di quadri intitolati come i capitoli di Jerusalem.
Edificare Gerusalemme «nella verde e piacevole Inghilterra»: Moore ha impiegato più di dieci anni per portare a termine la profezia cantata in uno dei suoi inni più famosi da William Blake (vero nume tutelare del romanzo insieme a James Joyce). Jerusalem è infatti una vera e propria epica dell’Inghilterra e dell’inglese come «lingua sacra», un romanzo straordinariamente ambizioso che offre l’esperienza di una lettura coinvolgente e appagante, unica nel suo genere: è un trattato filosofico sulla natura dello spazio-tempo, un romanzo d’avventura per ragazzi alla Harry Potter, una riflessione metanarrativa sull’arte; ma è anche un compendio della storia e della letteratura inglese che conta tra i propri personaggi ogni figura storica legata a Northampton (da John Bunyan a Oliver Cromwell, da Thomas Becket a Samuel Beckett, Adam Smith, Charlie Chaplin e molti altri).

Mitologia della sconfitta
Se ciò non bastasse, ogni capitolo del terzo libro è scritto in uno stile e con una tecnica narrativa che rispecchia il personaggio su cui si focalizza la narrazione. A spiccare su tutti è quello che descrive una giornata di Lucia Joyce – la figlia schizofrenica del famoso scrittore, internata al St. Andrew’s Hospital di Northampton – scritto interamente in una prosa che ricalca quella del Finnegans Wake (e che nell’edizione italiana si è preferito rendere nella lingua standard – scelta forse inevitabile ma che penalizza molto la ricchezza linguistica e lessicale dell’originale).

Tra visioni blakiane e joyciane invenzioni linguistiche, però, il romanzo presenta anche molti aspetti realistici e si carica di una forte valenza politica. Jerusalem rievoca con una lucidità disarmante la storia sociale di Northampton, restituendo una voce a chi troppo spesso è stato dimenticato dalla storia: i proletari, i senzatetto, i derelitti, «un pantheon di barboni e monelli pidocchiosi» che Moore dissotterra dalle testimonianze orali degli abitanti dei Boroughs facendoli rivivere tra le pagine del suo romanzo; e tra questi non mancano gli antenati dell’autore, o almeno le loro controparti finzionali.
Affidandosi ai principi della psicogeografia – l’idea che nella nostra esperienza di un luogo le informazioni più rilevanti sono proprio le associazioni mentali, i sogni, le fantasie di cui quel luogo è intriso –, Moore è riuscito a trasfigurare Northampton attraverso la scrittura come ha fatto Joyce per Dublino nell’Ulisse: ha «spremuto i mattoni finché non sgorgavano miracoli e riempito le crepe di leggende».

Il riscatto di un quartiere
Ogni capitolo di Jerusalem è un tour de force linguistico, una sfida intellettuale, una follia fantasiosa e visionaria da cui lasciarsi travolgere. In un universo in cui «si salvano tutti, peccatori, santi e pure le briciole di pane sotto il divano» (in inglese «to save» significa «salvare» ma anche «conservare»), «non è necessario che intervenga un salvatore». Con il suo romanzo Moore ha «salvato» il quartiere ormai degradato della sua infanzia, tessendo «una gloriosa mitologia della sconfitta»; del resto, se è vero che la funzione dell’arte è «recuperare ogni cosa dal tempo», Jerusalem è destinato a restare una pietra angolare della letteratura contemporanea di lingua inglese.