Porsi le domande sbagliate equivale a darsi risposte fallaci. Il cosiddetto mondo «occidentale» si interroga ormai troppo spesso se e quanto l’Islam sia compatibile con la modernità e il progresso. Si chiede se possa mai esistere un Islam «moderato» rispetto a uno «radicale» (dove la parola radicale viene percepita sistematicamente in termini negativi).
Si domanda se l’Islam in quanto tale sia da considerarsi intrinsecamente violento, retrogrado o irrazionale. Questo tipo di operazioni implicano un assunto di partenza: che l’Islam sia matrice di conflitto e per sua natura anti-democratico.

È tempo di uscire da questa logica binaria lungo la quale si innestano solo categorie dicotomiche (noi/loro, moderno/tradizionale, avanzato/retrogrado, libero/represso). Perché – appiattendo le complessità – il rischio è triplice: si destoricizzano i fenomeni, si cristallizzino identità monolitiche e si costruisce così la percezione dell’Altro inteso come nemico. Il punto è, dunque, l’uso politico che si fa dell’Islam e non la religione di per sé.

Spostando il focus in questa direzione, c’è un personaggio della storia iraniana recente che vale la pena ricordare a quarant’anni dalla sua morte: Ali Shariati (1933-1977). Sociologo, filosofo, studioso del marxismo, considerato «l’ideologo della Rivoluzione» del 1979 che porta alla proclamazione della Repubblica islamica, quando ormai la pluralità dei gruppi in rivolta (inizialmente le sollevazioni popolari non avevano una connotazione prettamente religiosa) è stata de facto sopraffatta dalla retorica di matrice islamica proclamata dall’ayatollah Khomeini.

Rileggere Shariati oggi è utile per rimettere a fuoco le apparenti contraddizioni tra religione e modernità, tra consuetudine e cambiamento, per cogliere le trasformazioni e le rotture che si articolano anche al di fuori degli ambienti secolari e laici.

Per Shariati, l’Islam è «un’ideologia, non cultura, filosofia o scienza», è rivoluzionario e anzi, non rifiuta la modernità di per sé. Shariati critica simultaneamente tradizione e modernità: propone una terza strada che svicola da questa opposizione.

Punta il dito contro il capitalismo e la democrazia liberale (intesi come bastioni dello sviluppo della modernità in Europa), ma non risparmia una profonda disapprovazione nei confronti della tradizione, e di chi – all’interno del clero sciita – ha trasformato l’Islam da rivoluzionario a profondamente conservatore. Secondo questa visione, dunque, lo Sciismo è da considerarsi una questione di lotta di classe tra oppressori e oppressi, orientata alla giustizia sociale e alla mobilizzazione delle masse.

Influenzato da Albert Camus e dalla sua lettura dell’uomo «in rivolta» durante gli anni del dottorato in Francia dopo il 1960, Shariati guarda all’Islam rivoluzionario come possibile via per canalizzare la soggettività ambivalente di parte dell’intellighenzia iraniana degli anni Sessanta, la quale – in quel momento – fonde insieme elementi locali e internazionali, di sinistra ma anche religiosi, senza apparenti contraddizioni.

Shariati è per una dirompente appropriazione dello spazio pubblico da parte dell’Islam, si inserisce laddove lo sciismo tradizionale incontra il socialismo moderno. È all’interno di quella griglia concettuale che si colloca la duplice rivoluzione da lui proposta, e di cui gli intellettuali – i cosiddetti rushanfekran – dovrebbero farsi promotori: la prima è nazionale e invoca la sovranità contro l’ingerenza di altri Paesi; la seconda è sociale e rivendica una società «giusta», «senza classi», priva di povertà ma reclama contemporaneamente un’economia «moderna». Ergo: una rivoluzione che risveglia la coscienza collettiva, un’altra che mobilita le masse.

Secondo lo storico iraniano Ervand Abrahamian, ci sono tre diversi Shariati: il primo sociologo, il secondo credente devoto, il terzo abile oratore in bilico tra l’islamismo e il marxismo. Queste tre anime convivono in un uomo che legge Karl Marx, ma anche Jean-Paul Sartre, Franz Fanon, Giap, Camus. Coesistono in un pensatore che sfida il secolarismo di Fanon, il quale considera l’abbandono della religione come passo fondamentale delle popolazioni del Terzo mondo contro l’imperialismo occidentale.

Queste tre personalità animano lo Shariati «ideologo della rivoluzione», che vede la riscoperta dell’identità religiosa come grimaldello per spalancare le porte alla lotta anti-imperialista.
Ciò che è successo dopo il 1979, ovvero una volta che gli ideali politici sono stati istituzionalizzati in un sistema di potere de facto teocratico, lo ha raccontato la storia post-rivoluzionaria della Repubblica islamica d’Iran, entità dove il discorso politico si è profondamente trasformato nel tempo. Ma allora era la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo sarebbe stato cruciale per la realizzazione di un progetto, quello di Shariati poi ripreso da Khomeini, che si sviluppava lungo tre direttrici fondamentali: la dimensione religiosa, quella populista e quella rivoluzionaria.

Proprio in quegli anni e una volta tornato in Iran, Shariati finisce nelle prigioni dello Scià per le sue idee considerate troppo radicali. Dopo sei mesi torna in libertà. Così, le sue lezioni vengono registrate, trascritte, diffuse, anche se una parte del clero conservatore inizia a temere le sue critiche. A quel punto viene arrestato di nuovo, ma questa volta resta in prigione fino al 1975 e poi agli arresti domiciliari fino al 1977. È allora che decide di lasciare di nuovo l’Iran.

Vola a Londra, ma a un mese di distanza dal suo arrivo muore in circostanze sospette, ufficialmente per attacco cardiaco.

Shariati, dunque, non ha mai visto nascere le sollevazioni popolari contro lo Scià del 1978-1979, ma ne è stato indirettamente promotore e ispiratore, guadagnandosi l’appellativo di «architetto», «ideologo» o «alchimista» della rivoluzione. Il suo è stato un lavoro incompiuto, troppo spesso citato – anche all’estero – per la sua visione di uno sciismo «rosso» contro uno «nero», che ha poi provocato parecchie letture distorte anche negli ambienti di sinistra occidentali. In realtà, nei suoi scritti si articola una profonda interpretazione delle teorie di Marx come scienziato sociale, strenuo oppositore delle leggi del determinismo economico e lucido osservatore del rapporto dialettico tra sovrastruttura, intesa come ideologia dominante versus struttura socio-economica.

Si criticano ferocemente, invece, i processi di «burocratizzazione» e quindi istituzionalizzazione del marxismo e dei processi rivoluzionari. Nonostante non manchino elementi internazionalisti, Shariati volge una particolare attenzione alle istanze sovraniste, teorizza de facto una rinazionalizzazione delle masse attraverso la riscoperta del bagaglio culturale locale (la religione), come mezzo determinante per superare l’alienazione economica e sociale e liberarsi dalle ingerenze straniere.

Shariati, infine, non calza nessuna lettura binaria riguardante l’Islam. A quarant’anni dalla sua morte, l’Iran e il rapporto pubblico degli iraniani con la religione sono profondamente cambiati, nonostante sia una Repubblica islamica.

Il contributo di Shariati è, però, ancora valido per ricontestualizzare il ruolo della religione all’interno della sfera pubblica, intesa come motore trainante della politica. In quest’ottica va riletto Shariati, come chiave per reinterpretare il rapporto tra religione e modernità. E proprio nell’Iran di oggi, i suoi allievi e seguaci si concentrano più sulla giustizia sociale che sulle libertà civili e ritengono ancora che la religione possa costituire una cornice per i processi di trasformazione socio-politici in atto.

Credono che, al netto dell’esperienza complessa della Repubblica islamica, la religione non vada confinata alla sfera privata, ma che vada rinegoziato il suo spazio di intervento. Così l’Islam può attivamente partecipare ai processi di cambiamento. In questi termini, pensatori contemporanei come Reza Alijani, Sara o Ehsan Shariati, sostengono sia possibile una rinegoziazione di molteplici esperienze di modernità in chiave egalitaria e di giustizia sociale, (contrariamente a chi invece proclama una visione più liberale dell’Islam), ma pur sempre mediata dalla religione.

Perché il punto – sostengono gli intellettuali vicini alle idee di Shariati – non è confinare le rappresentazioni della religiosità alla dimensione privata e quindi restringere gli spazi di libertà per alcuni. La questione è sfidare (e riformare) le declinazioni politiche di un certo tipo di Islam.