Inerpicandosi sulla salita di San Raffaele, nel quartiere di Materdei, si arriva al portale in piperno di un edificio quasi sconosciuto ai napoletani: si tratta di Palazzo Ayerbo D’Aragona Cassano. Peppe Morra l’ha riscoperto, un’operazione già praticata con la centrale elettrica a carbone Bellini, di cui si era persa memoria, trasformata da Morra nel museo Hermann Nitsch. Il nuovo spazio diventerà la sede della collezione del gallerista, appassionato di teatro: nel complesso di 4.200 mq verranno sistemate oltre duemila opere accanto all’archivio personale, ricco di documenti su movimenti come Gutai, Happening, Fluxus, Azionismo Viennese, Living Theatre, Poesia Visiva.

Il restauro non stravolgerà l’edificio ma ne lascerà intatta la complessa storia in una stratificazione di percorsi. I cavalieri catalani Ayerbo arrivarono a Napoli al seguito di Alfonso I d’Aragona, con cui erano imparentati. In quella che era un’area di campagna costruirono nel Cinquecento un casino di caccia circondato da orti, documentato nelle vedute e cartografie dell’epoca. Nel Seicento la zona cambia: giardini e alberi da frutta cedono parzialmente il passo a una nuova urbanizzazione, a ridosso delle mura cittadine. La masseria passa ai duchi Carafa di Bruzzano, che agli inizi del Settecento decidono di trasformare l’edificio in residenza nobiliare: all’ingresso che conduce agli appartamenti viene realizzato il monumentale corpo scala a pianta ottagonale, uno dei più spettacolari della città.

Il progetto è stata attribuito a Ferdinando Sanfelice. Ideatore delle più belle scale dei palazzi barocchi, contiene entrambi i temi sviluppati dall’architetto napoletano: la struttura aperta e la circolarità. La realizzazione però non è sua, così le scale presentano un elemento in più: lo spazio è inquadrato non da finestroni ma da arcate. La resa è tanto spettacolare da trasformare il ballatoio del piano nobile in una sorta di palcoscenico con il pubblico che può disporsi intorno. Travi in legno, affreschi alle pareti, la veduta sui giardini completarono i lavori. A fine Ottocento l’intera proprietà viene venduta alla monaca terziaria Maria Teresa de Conciliis, il palazzo diventa un convento. I terreni saranno poi ceduti alla Cooperativa Case Impiegati dello Stato, che tra il 1925 e il 1930 realizza il Rione Materdei. Il palazzo scompare dalla vita della città, per ritornarci adesso come Casa Morra.

Sono previsti cicli espositivi regolati dall’alchimia dei numeri tre e sette. Si comincia con John Cage, Marcel Duchamp e Allan Kaprow. Nella prima sala aperta al pubblico è esposta Not Wanting to Say Anything About Marcel (Non vogliamo dire nulla su Marcel Duchamp, ndr): serie di otto plexigrams, venne realizzata da John Cage nel 1969, un anno dopo la morte di Marcel Duchamp.
Il titolo deriva dalla frase di Jasper Johns che, subito dopo la morte di Duchamp, affermò: «In effetti, io non voglio dire nulla». Nella struttura in vetro al centro della stanza sono esposte le incisioni dei Volume I e Volume II di The Large Glass and Related Works di Arturo Schwarz, ancora un omaggio a Duchamp, in particolare a La Mariée mise à nu par ses célibataires, même.

Nell’ambiente successivo troneggia Stockroom, installazione che Kaprow nel 1991 sistemò nella galleria di Morra, all’epoca a via Calabritto. Come allora, il pubblico può tornare a interagire con la struttura seguendo le regole stabilite dall’artista: «Questa versione di Stockroom deve essere dipinta dal visitatore in un colore diverso ogni giorno: bianco, rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola, nero, ripetendo questa sequenza ogni otto giorni».