Negli ultimi decenni molti artisti e collettivi hanno lavorato sugli archivi e sulle raccolte di documenti storici per indagare le modalità di catalogazione e decostruzione del reale, della storia, del tempo. Archivio inteso non come mera banca dati, ma come dispositivo in grado di mettere in discussione la lettura dei documenti stessi per sovvertirli dall’interno, come suggeriva Allan Sekula nel saggio The Body and the Archive. Tante le opere che potremmo citare a questo proposito tra cui quelle di subReal (Calin Dan and Josif Keraly), Eugenio Dittborn, Rosângela Rennó, The Atlas Group, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, opere che permettono di riflettere sulle relazioni tra ambito estetico e etico, tra finzione e realtà, potere e potenzialità. Nomeda e Gediminas Urbonas hanno invece lavorato alla creazione di un nuovo archivio per indagare l’identità lituana, attraverso la raccolta di interviste e di frammenti di film lituani realizzati negli anni in cui la Lituania divenne una Repubblica Socialista Sovietica.

Di archivi si è parlato all’ultima edizione del Global Art Forum di Dubai, dedicato ai mutamenti indotti dall’utilizzo delle tecnologie in ambito artistico e culturale perché, come ha sostenuto Shumon Basar, consulente scientifico del Forum: «anche se sono gli esseri umani che teoreticamente hanno ‘inventato’ le tecnologie, è altrettanto vero che è la tecnologia che sta costantemente ‘re-inventando’ noi umani, con modalità di cui non siamo consapevoli».

Nuovi codici
Il Forum ha raccolto progetti eterogenei come quelli presentati nella sessione dedicata alle nuove istituzioni museali, a cui ha partecipato Jack Persekian del Palestinian Museum, Gabriel Pérez-Barriero, direttore della Collezione Patricia Phelps de Cisneros e Gala Berger di Buenos Aires che ha illustrato La Ene, un museo pop-up itinerante contenuto in una chiave usb. Il panel del Palestinian Museum è emerso per la forza di un progetto che mette in discussione i codici della rappresentazione museale creando reti relazionali tra individui lontani tra loro. «Il Palestinian Museum vuole essere una piattaforma di archivi visuali che permette di condividere e conservare oggetti e testimonianze della cultura palestinese – ha spiegato Persekian – Per renderlo attivo stiamo creando collaborazioni con istituti locali, regionali e internazionali e con i palestinesi presenti in ogni parte del mondo, visto che più della metà di loro vive fuori dal paese natio. Vogliamo contrastare, grazie alle tecnologie digitali, la frammentazione e la ghettizzazione in cui vivono i palestinesi».

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L’idea iniziale dei membri della Welfare Association (organizzazione indipendente non-profit per lo sviluppo dell’assistenza umanitaria dei palestinesi), quando hanno cominciato a occuparsi del progetto nel 1998, era creare un museo storico dedicato alla commemorazione della Nakba del 1948 – quando diverse centinaia di migliaia di palestinesi furono obbligati a lasciare le loro case in seguito al conflitto arabo-israeliano. Dopo una lunga serie di discussioni, il proposito del museo venne riformulato per declinare il tema della memoria in termini identitari, con il proposito di connettere le comunità palestinesi disperse dopo la diaspora attraverso la digitalizzazione dei materiali raccolti. «Il Palestinian Museum è unico in termini progettuali – ha continuato Persekian – Il suo valore non è tanto la costruzione di un edificio, quanto la volontà di connettere e creare collaborazioni con individui, centri culturali e archivi situati in altri paesi, attraverso piattaforme fisiche e digitali. La nostra determinazione è andare oltre le divisioni politiche interne e di non soccombere alla ristretta mobilità inflitta ai palestinesi quale conseguenza dell’occupazione israeliana».
Il museo è situato a 25 km da Gerusalemme, nei pressi dell’Università di Birzeit. Progettato dallo studio di architettura di Dublino Heneghan Peng è una struttura architettonica le cui facciate di vetro e mattoni sono ispirate dalla morfologia del paesaggio circostante caratterizzato da terrazzamenti e dislivelli del terreno. Una serie di giardini tematici occupano una parte del museo, con fiori, alberi, piante e erbe medicinali che rappresentano la storia orticola della Palestina, seguendo le indicazioni fornite dal Palestine Green Building Council per la sostenibilità ambientale. Oltre allo spazio espositivo vi è un anfiteatro, una caffetteria, una biblioteca, un auditorium, un negozio, uffici, per raggiungere una superficie complessiva di 3500m2.

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Rendering del museum

Never-Part è la mostra che inaugurerà il programma espositivo del museo, il 15 maggio 2016, data che coincide con il 68esimo anniversario della Nakba. È un progetto relazionale che indaga le connessioni esistenti tra cultura materiale, memoria e identità palestinese. Sono circa 280 gli oggetti «fabbricati» in Palestina raccolti e raccontati da palestinesi che vivono in Cile, Libano, Egitto, Tunisia, Algeria, Stati Uniti, Kuwait, Saudi Arabia, Germania, Inghilterra, Italia, Francia, Norvegia, Argentina, Australia, Canada, Cisgiordania per ricordarne solo alcuni. Gli oggetti esposti, conservati per un lungo periodo di tempo, hanno provenienze e finalità diverse, possono essere ricordi come il ciondolo di una colonna d’oro con una piccola mappa della Palestina, o oggetti d’uso come una radio, un pettine, francobolli, un paio di scarpe non indossate, un orologio o la chiave dell’abitazione abbandonata durante la guerra del 1948, conservata pur sapendo di non potere più tornare a vivere in quella casa. Nonostante la diversità degli oggetti sono tutte testimonianze di connessioni esistenti tra storia privata e collettiva, e in cui la storia personale trova risonanze in quella collettiva, come emerge dai racconti che accompagnano gli oggetti.

«Il significato che attribuiamo al passato e le proiezioni sul futuro sono legate alla nostra percezione del presente, percezione che non è mai statica ma in continuo mutamento. Tale dinamismo è strumentale nel fornire letture alternative alla storia ufficiale», ha detto ancora Persekian. E poi ha precisato: «Never-Part e il Palestinian Museum sono un invito a riflettere su una diversa/possibile narrazione dell’identità. Il museo vuole essere una piattaforma culturale in cui i palestinesi possono esplorare aspetti significativi della loro storia. Per noi nessuna voce è marginale, i visitatori possono essere, anche loro, degli attivi creatori di contenuti. La volontà è quella di sfidare la narrazione lineare e i simbolismi codificati della storia palestinese».

Un mosaico in divenire
Il Forum offriva anche la possibilità di partecipare a un workshop dedicato all’archiviazione digitale di documenti analogici condotto da Asia Art Archive. Dopo la presentazione del workshop, Persekian ha illustrato The Family Album, progetto dedicato alla raccolta di album fotografici di famiglia, che sono in corso di digitalizzazione per poter essere condivisi e comporre una cartografia della memoria privata palestinese. «Siamo felici di aver collaborato e di essere parte del Meppi (The Middle East Photograph Preservation Initiative) che ha fornito una fantastica opportunità per il training del nostro staff per l’archiviazione delle fotografie e per il supporto in termini di networking con altre importanti istituzioni internazionali – ha affermato Persekian – Questa collaborazione ha ispirato la creazione di The Family Album. Grazie al progetto abbiamo raccolto più di duemila immagini fotografiche, e compiuto più di sessanta interviste a Gerusalemme, Betlemme, Jenin, Gaza, Ramallah e Al-Bireh. Abbiamo scoperto tesori fotografici nascosti, frammenti di un mosaico in divenire che potrà essere completato dalle generazioni future».
Il museo, insieme a The Institute of Palestinian Studies and Visualising Palestine del Libano, sta creando una timeline multimediale che raccoglie gli eventi più importanti della storia palestinese. La timeline inizia dalla metà dell’800 e raccoglie rari materiali d’archivio, file audio, mappe, sequenze cinematogratiche e fotografie. Tanti ancora i progetti a cui stanno lavorando, di cui Persekian ha preferito non parlare perché ancora in corso. Ha annunciato però la prima mostra satellite che sarà inaugurata nel nuovo centro culturale Dar El Nimer Cultural di Beirut nel maggio 2016.