La Commedia di Dante grida, canta, si lamenta. A volte urla, stride, sospira, fa tumulto, si piega al boato del vento, ribolle di rabbia, si inebria di canto, parla lingue orribili, piange di dolore. I versi danteschi non chiedono soltanto di essere letti o detti, ma anche soprattutto di essere ascoltati. Più che una poesia visiva quella di Dante è una poesia sonora che chiede all’occhio di guardare, ma anche all’orecchio di sentire. Ogni canto è infatti attraversato da uno sciame di epifanie sonore: in apparenza fenomeni acustici di carattere «realistico», che mostrano, in realtà, una disposizione di carattere profondamente simbolico. Se si percorre la Commedia come un paesaggio sonoro ci si rende conto, infatti, che la germinazione dei suoni, lungo il sentiero dell’anabasi dantesca, sembra possedere innanzitutto una tipica architettura arborescente.

Si parte dal basso, dalle radici, dalle profondità ctonie: l’Inferno è popolato, prevalentemente, da suoni distorti, digrignanti, aspri: il mare che mugghia, combattuto da «contrari venti», nel quinto Canto, e poco oltre le «strida, il compianto, il lamento» degli spiriti che bestemmiano la virtù divina, il fuoco che «rugghia» nel ventisettesimo, lo scroscio del gorgo nel diciassettesimo, gli spiriti che la pioggia, nel sesto, fa «urlare come cani». Ma appena si lasciano le sonorità buie e nereggianti dell’Inferno e si sale verso il Purgatorio ecco che l’universo sonoro si trasforma all’improvviso: stiamo risalendo il tronco dell’albero dove si trovano, attaccati ad ogni ramo, suoni più chiari, trasparenti e soprattutto più «organizzati»: è il momento in cui i rumori si trasformano in «musica vera» e prende forma il canto delle anime purganti.

Nel secondo Canto incontriamo i cento spiriti che intonano insieme, «ad una voce», il Salmo n. 113, In exitu Israel e subito dopo, nel medesimo canto, la citazione più celebre: l’intonazione che Dante attribuisce a Casella, musicista vissuto a Firenze tra il 1250 e il 1300, di un proprio verso tratto dal Convivio: «Amor che nella mente mi ragiona». Ma nel Purgatorio si ascoltano anche i suoni della natura: ad esempio gli «augelletti» del ventisettesimo Canto che cantano sugli alberi mentre il fruscio delle foglie tiene loro bordone oppure la misteriosa «dolce melodia» che, nel ventinovesimo, corre per l’aere luminoso dell’Eden. Una nuova metamorfosi acustico-sonora avviene quando lasciamo il tronco del Purgatorio per risalire verso la chioma dell’albero, ossia verso le altitudini vertiginose del Paradiso. Qui la musica che nel Purgatorio si invera prevalentemente nelle forme della salmodia e del canto sacro, si scioglie da ogni legame con la musica humana per assumere una dimensione disincarnata, fatta soltanto di movimento, di luce, di colore. Purissima musica mundana, perfetta, armoniosa, inudibile: i «lumi» che nel ventiduesimo Canto fanno sonare il nome di Maria, il canto «tanto divo» che, nel quattordicesimo, la fantasia non può nemmeno ricordare, la «festa grande» di luce, fiamme e canti che nel dodicesimo Canto accompagna il Panegirico di San Bonaventura, o ancora l’Osanna sfolgorante di luce che nell’ottavo viene intonato dal coro dei Serafini.

Ma questo rigoglioso albero sonoro che dalle radici infere sale fino a toccare le chiome del Paradiso non è una semplice immagine, un mero artifizio costruttivo. È al contrario, letteralmente, radicato in una figura simbolica antichissima e «popolare», comune tanto alla cabala ebraica che alla cultura islamica e alla cristologia cristiana: quella dell’«Albero della Vita». Il modello figurativo più spettacolare e più vicino alle possibili conoscenze dirette di Dante è senza dubbio il celebre Albero della vita di Pacino di Buonaguida, il primo illustratore della Commedia, realizzato con ogni probabilità tra il 1310 e il 1315 e ora conservato nella Galleria dell’Accademia di Firenze: dal tronco della croce sulla quale è crocifisso un Cristo apertamente giottesco si dipartono dodici rami da ognuno dei quali pendono, come frutti, quattro medaglioni che contengono una silloge di esemplari storie cristologiche.

Alle radici dell’Albero vengono raffigurate le storie della Genesi, sulla cima appare invece la città murata del Paradiso. Assecondando questa visione si scopre dunque che i suoni della Commedia rappresentano l’anabasi umana che dalla creazione conduce fino alla meta della salvezza. Un assordante sentiero sonoro lungo il quale le voci degli uomini e quelle della natura diventano metafora e al tempo veicolo di un umanissimo ideale: la perenne, inconclusa, infinita conoscenza del mondo.