Da ieri mattina Zakiur Rehman Lakhvi, uno dei leader del gruppo terroristico Lashkar-e-Taiba (LeT), è tornato in libertà per ordine dell’Alta Corte di Lahore. Si tratta di un fatto annunciato, per certi versi inevitabile, nell’aria già dallo scorso dicembre, quando la medesima Corte ne aveva disposto la liberazione dietro cauzione dopo una «detenzione» di oltre sei anni nel carcere Adiala a Rawalpindi.

Le autorità indiane ritengono che Lakhvi, 51 anni, sia stato tra gli ideatori e i responsabili di logistica e addestramento dell’attentato a Mumbai nel novembre del 2008, quando un commando di dieci miliziani di LeT attaccò sette obiettivi nella parte sud della capitale economica indiana. I morti furono 166, oltre 300 i feriti.

Secondo le ricostruzioni degli inquirenti indiani, Lakhvi avrebbe reclutato i membri del commando, li avrebbe addestrati e addirittura guidati a distanza, dando indicazioni via radio dalla «control room» di Karachi, dove membri di LeT – e, sospetta New Delhi, esponenti dei servizi segreti pakistani – avrebbero diretto l’attacco.

Con un passato di guerriglia in Cecenia, Bosnia e Iraq, Lakhvi è stato arrestato dalle autorità pakistane nel dicembre del 2008 e messo in un carcere dove – come diversi leader di organizzazioni terroristiche pakistane che godono di rapporti più o meno ufficiali con gli organi militari, di polizia o di intelligence – poteva ricevere visite di altri membri di LeT e utilizzare il telefono cellulare, in uno stato di reclusione/protezione garantito sia dall’esercito pakistano, sia dai miliziani di LeT.

La messa in libertà di dicembre, a pochi giorni dal massacro della scuola militare di Peshawar ad opera dei Taliban pakistani, era stato scongiurato da Islamabad ricorrendo ad una legge a tutela dell’ordine pubblico, rassicurando nel contempo New Delhi che Lakhvi non sarebbe di certo tornato in libertà. In questi mesi, però, ben due corti hanno accolto la richiesta di libertà su cauzione avanzata dai legali di Lakhvi e ieri mattina «Chachu» – zio, in urdu, così viene chiamato dai suoi sottoposti – è stato trasportato fuori dal carcere, «in un luogo sicuro», secondo quanto rivelato da LeT. Non è chiaro se la scorta sia stata fornita dalla Inter Services Intelligence – la potentissima e controversa agenzia d’intelligence pakistana – o dai membri di LeT.

L’India ha appreso la notizia nella tarda mattinata locale, mentre l’interesse mediatico per il primo giorno del tour transatlantico di Narendra Modi – che lo porterà in visita ufficiale in Francia, Germania e Canada – era alle stelle. Il governo centrale, per voce del ministro degli Interni Rajnath Singh, ha espresso «dispiacere e delusione» per la liberazione di Lakhvi, l’ennesimo ostacolo al processo di normalizzazione dei rapporti che New Delhi e Islamabad stanno provando – almeno formalmente – a portare avanti.

Nella serata di ieri l’Alto Commissario indiano Tcs Raghavan (la più alta carica diplomatica indiana in Pakistan) ha incontrato il direttore del Ministero degli Esteri pakistano Aizaz Ahmad Chaudhry, portando le proteste ufficiali dell’India per un fatto che «rafforza l’impressione che il Pakistan mantenga una doppia politica quando si occupa di terrorismo», rifacendosi alle accuse mosse dalla comunità internazionale ad Islamabad, che dividerebbe le numerose cellule terroristiche attive nel paese in macro gruppi di «terroristi buoni», cioè utili alle cause della politica interna o estera, e «terroristi cattivi», dannosi per la sicurezza interna del Pakistan. Secondo le indagini condotte dagli inquirenti antiterrorismo indiani, il nome di Lakhvi sarebbe stato confessato da Ajmal Kasab, unico sopravvissuto del commando di Mumbai 2008, catturato dalle forze speciali indiane e condannato alla pena capitale, eseguita nel novembre del 2012. New Delhi ha accusato gli inquirenti pakistani di non aver voluto includere le prove fornite dalla polizia indiana nel processo contro Lakhvi, a dimostrazione della reticenza di arrivare a giudizio nonostante – sempre secondo gli investigatori indiani – anche solo le prove raccolte dall’accusa pakistana nel territorio pakistano siano più che sufficienti per una condanna.

Il Pakistan, al contrario, incolpa la «mancata collaborazione» indiana del ritardo dei tempi processuali grazie al quale i legali di Lakhvi hanno avuto gioco facile a richiederne la scarcerazione su cauzione. In sei anni di indagini, secondo la difesa di Lakhvi, le prove a carico dell’imputato sarebbero «insufficienti» e «inconsistenti», basate unicamente su indiscrezioni non confermabili. Degli oltre 150 testimoni chiamati a deporre nel caso Lakhvi, in sei anni, la Corte – volente o nolente – è riuscita a sentirne solo 50.