In tribunale, in Siria, su un campo da calcio: l’Iran non intende finire all’angolo e reagisce alle pressioni statunitensi muovendosi su terreni diversi.

Partendo dall’Olanda: ieri all’Aja si è aperta l’udienza della Corte Internazionale di Giustizia in merito alla denuncia mossa a fine luglio dall’Iran contro gli Stati uniti. Teheran accusa Washington di violazione del trattato bilaterale del 1955 attraverso l’introduzione di sanzioni contro l’economia iraniana (le ultime sono state reintrodotte il 7 agosto, le prossime il 4 novembre).

La richiesta al tribunale Onu è la sospensione immediata delle restrizioni che stanno provocando un’emorragia commerciale, con decine di compagnie straniere che, siglati contratti miliardari con Teheran negli ultimi tre anni, ora li congelano o scappano. Total non è che l’ultimo caso.

Ieri a presentare il caso ai giudici sono stati i legali iraniani, oggi toccherà agli Stati uniti rispondere: secondo fonti interne gli avvocati Usa potrebbe limitarsi ad argomentare che il trattato non viene violato o spingersi oltre, il trattato non è più in essere.

Eppure è stata proprio l’Aja in due diverse occasioni a dichiararlo vivo e vegeto, sebbene il regime iraniano che lo siglò è ben diverso dall’attuale: le firme sull’accordo nel 1955 sono quelle del presidente Einsenhower e del premier Hossein Ala. Erano trascorsi appena due anni dal golpe eterodiretto che portò alla caduta del governo democratico di Mossadeq («colpevole» agli occhi occidentali della nazionalizzazione del greggio).

Il trattato definisce rapporti diplomatici ed economici e all’art. 23 indica nella Corte Onu la responsabile della risoluzione di eventuali dispute. Ed è rimasto integro, sopravvissuto alla rivoluzione khomeinista del ’79, alla crisi degli ostaggi, all’abbattimento da parte Usa di un aereo civile iraniano nel 1988 e all’uccisione dei 290 passeggeri. Ad affermarlo la stessa Corte di Giustizia in due diverse sentenze.

Ora L’Aja torna campo di battaglia: tra un mese dovrebbe uscire il verdetto, comunque non vincolante. Se favorevole a Teheran, però, rappresenterebbe una legittimazione significativa, che fa il paio con l’appoggio europeo all’accordo sul nucleare di tre anni fa.

La leadership iraniana sa di dover portare a casa risultati, perché è lì, in casa, che gli effetti delle sanzioni mordono: la valuta ha perso metà del suo valore, l’inflazione sale come la disoccupazione e le compagnie straniere che avrebbero dovuto rilanciare l’economia interna fuggono da sanzioni unilaterali ma efficaci contro chi (come Total) vive anche del sostegno delle banche Usa.

E poi c’è l’altro campo di battaglia, quello bellico. Mentre Usa e Israele telefonano a Mosca un giorno sì e uno no per imporre l’uscita delle forze iraniane dalla Siria, il ministro della Difesa di Teheran vola a Damasco e firma un accordo di cooperazione militare e ricostruzione.

È successo ieri, mentre a 270 km di distanza, a Idlib, l’esercito governativo si prepara all’ultima offensiva contro la composita galassia jihadista sostenuta dalla Turchia. Il presidente Assad non fa a meno né di Hezbollah, a cui ha chiesto di rimanere, né dell’Iran che ha investito troppo nella guerra per andarsene senza portare a casa una fetta di ricostruzione e una decisiva influenza politica.

E infine, il ruolo di pivot regionale. Con l’asse israelo-saudita incendiario della guerra fredda, Teheran guarda all’altro grande «isolato», il Qatar. Da oltre un anno alle prese con la rottura dei rapporti diplomatici da parte delle altre monarchie del Golfo, Doha non ha faticato a rivolgersi alla Repubblica Islamica. Che dopo aver offerto porti e aeroporti al vicino, siglato accordi per il giacimento di gas naturale condiviso, South Pars, ora si propone di costruire le infrastrutture per i Mondiali 2022.

Il boicottaggio economico e diplomatico del blocco sunnita contro l’amico-nemico qatariota sta seriamente rallentando i lavori di costruzione (molto del materiale arriva da Riyadh e Abu Dhabi) che, va sempre ricordato, ricadono sulle spalle di migliaia di lavoratori migranti in condizione di semi-schiavitù.