Inchiesta sui crimini dei Talebani e dello Stato islamico, ma non su quelli delle truppe americane, perlomeno non ora. Lunedì Karim Ahmad Khan, il procuratore capo della Corte penale internazionale ha dichiarato di aver sottoposto ai giudici della Corte l’approvazione finale per l’apertura di un’inchiesta su presunti crimini di guerra compiuti in Afghanistan dal 2003, l’anno in cui il governo afghano ha sottoscritto lo statuto di Roma, pur avendo adottato nel 2008 una legge di amnistia e avendo scelto l’impunità come politica istituzionale.

KARIM AHMAD KHAN, che sostituisce dal giugno scorso la procuratrice Fatou Bensouda, non ci sono le condizioni per fare luce sui crimini compiuti da tutti gli attori del conflitto. «Consapevole delle limitate risorse di cui dispone l’Ufficio», il Procuratore ha deciso di derubricare come secondari (deprioritise) i presunti crimini delle forze statunitensi e degli altri attori. Crimini su cui la stessa Corte penale aveva già raccolto testimonianze credibili, sia su abusi e torture compiuti nel Paese centro-asiatico, sia su quelli commessi nei Paesi in cui la Cia ha condotto le extraordinary renditions, i sequestri di presunti terroristi, prelevati nei loro Paesi di origine e trasferiti nelle prigioni-buchi neri, dopo l’11 settembre 2001.

SECONDO LE INDAGINI preliminari condotte per quasi dieci anni, la Corte aveva infatti raccolto prove sufficienti per ritenere che tutti gli attori del conflitto – forze afghane, americane, anti-governative – abbiano compiuto crimini di guerra o contro l’umanità, dalle torture agli abusi sessuali, dalle uccisioni indiscriminate di civili agli omicidi extra-giudiziali.

Con l’arrivo al potere dei Talebani, ai quali la Corte ha notificato l’intenzione di riprendere l’inchiesta attraverso l’ambasciata afghana in Olanda, per la Corte è venuta meno la plausibilità della richiesta di rinvio avanzata lo scorso 26 marzo dal governo di Kabul. Richiesta arrivata dopo un’”offensiva diplomatica” che aveva portato una delegazione guidata dall’allora ministro degli Esteri, Hanif Atmar, all’Aja, dove ha sede la Corte, per convincere i giudici che il governo afghano guidato da Ashraf Ghani aveva i mezzi e la volontà politica di condurre un’inchiesta. Non era così. Ma serviva guadagnare tempo.

OGGI IL PROCURATORE inglese Karim Ahmad Kan enfatizza proprio i tempi per giustificare la decisione: i crimini di Talebani e Stato islamico vanno avanti. «La gravità, l’entità e la natura continuativa dei presunti crimini dei Talebani e dello Stato islamico, che includono attacchi contro i civili, esecuzioni mirate extragiudiziali, persecuzione di donne e ragazze, crimini contro i bambini, richiede attenzione prioritaria e risorse appropriate».

Quanto agli altri crimini, lascia intendere, verranno esaminati una volta che le risorse del suo Ufficio lo consentiranno. Ma la decisione è criticata. A partire dall’Aclu, l’American Civil Liberties Union, che rappresenta Khaled El Masri, Suleiman Salim e Mohamed Ben Soud, tre uomini torturati in Afghanistan. Jamil Dakwar, il direttore del programma per i diritti umani dell’Aclu, invita con forza la Corte a rivedere la decisione, «che posticipa in modo indefinito la giustizia per le vittime dei programmi di tortura degli Usa» e che «manda un messaggio preoccupante sulla capacità di fare luce sui crimini di guerra commessi dagli attori dei Paesi potenti».

L’AMMINISTRAZIONE BIDEN non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Ma nei mesi scorsi aveva ristabilito rapporti più equilibrati con la Corte, dopo che l’amministrazione Trump li aveva fortemente compromessi.

Il 5 marzo 2020 il giudice Piotr Hofmanski, presidente del Tribunale di appello della Corte penale internazionale, aveva dato ragione alla procuratrice Bensouda e sostenuto che l’inchiesta su tutti i crimini compiuti in Afghanistan andava condotta, contrariamente a un precedente pronunciamento della Corte, che riteneva l’inchiesta «contraria agli interessi della giustizia».

IN QUELL’OCCASIONE, il dipartimento di Stato Usa aveva parlato di «un’azione scioccante presa da un’istituzione politica mascherata da organismo giuridico». Ad attaccare a testa bassa era il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che l’anno precedente aveva negato il visto degli Stati uniti alla procuratrice Bensouda, imponendole poi sanzioni finanziarie.

Oggi è la stessa Corte che esenta Washington dallo scrutinio. Solo per ora, assicura il nuovo procuratore.