L’attentatore suicida che domenica ha seminato la morte nell’affollato parco di Gulshan-e-Iqbal a Lahore ha un nome e un profilo. La polizia ci sarebbe arrivata ieri sulla base di un identikit che aveva messo fuori causa il primo nome – Muhammad Yousuf di Muzafargarh- saltato fuori da una certa d’identità trovata sul posto.

Ma la conferma arriva direttamente dal gruppo scissionista dei talebani pachistani che ha rivendicato la strage – Jamaatul Ahrar – che ha reso nota identità e fattezze del giovane Salahuddin Khorasani, un ragazzo tra i 20 e i 25 anni di cui Ja ha diffuso una foto che corrisponde all’identikit degli inquirenti. La polizia pachistana ha già arrestato 200 sospetti negli ambienti radicali e dice di tenere sotto stretto controllo le madrase dell’area con un’operazione che però ha «carattere nazionale».

La caccia all’uomo prosegue per individuare chi ha aiutato il suicida e chi ha preparato l’attacco nel quale sono morte 72 persone e altre 300 sono state ferite. Tra loro, donne e bambini in gran parte cristiani (il target della strage rivendicata da Ja) ma ovviamente anche musulmani in un parco pubblico sempre affollato nei giorni di festa.

I terroristi, che fanno parte di un gruppo che si è scisso dal Teherk Taleban Pakistan (Ttp), il cartello jihadista nato nel 2007, hanno colpito i cristiani ma l’operazione potrebbe in realtà avere tutt’altro obiettivo: dar forza al neonato gruppo terrorista – che sembra abbia aderito al progetto di Daesh – per accreditarlo sia come nuova forza sullo scenario locale, sia come possibile nuova cupola del cartello talebano pachistano in seria difficoltà tra scissioni e litigi interni.

Difficoltà aumentata dall’operativo Zarb e Azb, offensiva militare lanciata nell’estate 2014 dall’esercito guidato dal generale Raheel Sharif, l’uomo che tutti indicano come il vero artefice di quanto avviene in Pakistan dove al governo, formalmente, ci sono i civili.

L’operativo Zarb e Azb ha i suoi lati oscuri: a dicembre, a 18 mesi dal suo inizio, Raheel ha fatto il punto e sciorinato i successi di un’operazione che ha impegnato circa 30mila soldati col sostegno dell’aviazione. Secondo i militari 3.400 terroristi sarebbero stati uccisi in 837 nascondigli distrutti con 13,200 operazioni mirate.

I morti tra i soldati erano 488 (Pakistan Army, Frontier Corps (FC) e Sindh Rangers) con 1.914 i feriti. Quanto alla giustizia, erano in funzione 11 corti militari autorizzate dopo l’inizio dell’operativo e che possono condannare a morte perché Islamabad ha sospeso la moratoria. Alcuni dei detenuti condannati sono già stati impiccati. L’esercito ha sostenuto che in Waziristan non ci sono state vittime civili (!) ma, a parte l’apodittica certezza, non ci sono né dati né stime indipendenti perché l’area è vietata ai reporter.

Quanto agli sfollati, secondo la stampa locale erano – nel luglio del 2014 a un anno cioè dall’inizio dell’operazione – circa un milione (oltre 80mila famiglie) con una discreta discrepanza tra quel numero e la popolazione attiva del Waziristan (la zona target) che è tra le 4 e le 500mila persone.

L’esercito assicurava anche che entro il 2015 tutti i rimpatri nei luoghi di origine sarebbero stati completati anche perché per l’esercito gli sfollati ammontavano nel dicembre scorso a soli 300mila. Numeri che non tornano. Il rischio è adesso che la mano diventi troppo pesante grazie al consenso che si forma appena i talebani compiono i loro efferati attentati.
L’esercito ha usato caccia bombardieri, fa uso di corti speciali, può comminare la pena capitale ma nello stesso tempo è impossibile verificare cosa accade degli sfollati, quante sono le vittime civili, in che condizioni si può tornare a casa.

L’emergenza talebana del resto fa porre poche domande. Né ne hanno fatte l’Unione europea o gli Stati uniti ai quali va imputato il capitolo droni, un’arma usata per uccisioni mirate sulle quali non si hanno dati certi (vedi il caso dell’italiano Giovanni Lo Porto ucciso in Pakistan da un drone).

E se viene ignorato ciò che fanno i militari, poca attenzione viene anche dedicata alla società civile pachistana che in molte occasioni – dall’attentato a Malala fino alla manifestazioni che seguono alle stragi- si è mobilitata per dimostrare la totale distanza dalle strategie islamiste.