Che le zucche siano arancioni, le patate gialle o i cavolfiori verdi è un dato che diamo per scontato. I bambini le disegnano così, al mercato le vediamo così. Sulle nostre tavole e nei nostri orti, quando li abbiamo, regna un ordine cromatico e prospettico conosciuto e rassicurante.

Purtroppo, l’ultimo rapporto Fao sullo stato della biodiversità mondiale per l’alimentazione e l’agricoltura ci dice che di rassicurante c’è ben poco. Il fatto che siamo abituati a una standardizzazione delle varietà che mangiamo è il segno di un modello di agricoltura industriale che promuove la replicabilità e la stabilità, rifuggendo ciò che è diverso e quindi non perfettamente replicabile in un processo produttivo lineare. La biodiversità agroalimentare è la varietà di microorganismi, piante, animali, ecosistemi che contribuiscono alla nostra dieta di esseri umani. In sostanza si tratta della base fondante della nostra sopravvivenza, di ciò che, adattandosi ai diversi ambienti che abitiamo, ci consente di sfamarci ogni giorno a dispetto di condizioni climatiche e pedologiche differenti. Non solo, perché questa varietà è anche quella che ci consente di far fronte agli shock esterni che possono minacciare la nostra capacità di produrre cibo. Un esempio su tutti sono i virus o i problemi fitosanitari. Quando una varietà viene colpita, l’unico modo per ricostituire la capacità produttiva originaria è cercare, nella diversità genetica di quella specie, una varietà resistente alla malattia con la quale sostituire quella colpita.
Può sembrare un discorso astratto ma lo abbiamo già vissuto. Ad esempio quando, a metà del diciannovesimo secolo, la patata europea fu attaccata da un fungo che ne decimò la produzione in maniera così estesa da causare in due anni un milione di morti per fame nella sola Irlanda e costringendo un altro milione di persone a emigrare in America. Allora l’unica strada per reintrodurre la patata in Europa fu quella di ricorrere a specie resistenti al fungo che ancora si trovavano nella culla del germoplasma di questa pianta, le Ande sudamericane. Delle oltre ottomila varietà di patate che allora erano presenti, oggi ne sopravvivono meno di mille, ed è questo il grande allarme della Fao. Se perderemo anche queste, chi ci salverà dalla prossima crisi?

Questa tuttavia è solo una parte del problema, ancorché grossa. C’è un’altra questione non trascurabile: la biodiversità della nostra agricoltura assolve a funzioni cruciali per la sostenibilità degli ecosistemi rurali. Basti pensare alla funzione degli insetti impollinatori (in allarmante diminuzione) o a quella dei microorganismi del sottosuolo che con il loro lavoro anaerobico generano l’humus necessario alla fertilità dei campi. Se perdiamo queste funzioni, chi le potrà sostituire? Ecco allora che il grido d’allarme della Fao, che per la prima volta pubblica un documento interamente dedicato alla biodiversità, ci deve spingere a prendere provvedimenti. Dobbiamo modificare i nostri sistemi produttivi e distributivi nell’ottica della varietà, della complessità e dell’interdipendenza. La monocoltura industriale e un’agricoltura basata sugli input di sintesi stanno distruggendo il nostro futuro. Solo recuperando metodi integrati di lotta ai parassiti dannosi, solo praticando la coltivazione sinergica di specie diverse ma complementari e promuovendo un approccio al consumo aperto e curioso possiamo invertire una tendenza pericolosa.

Allora saremo contenti di scoprire che esistono zucche viola, patate blu e cavolfiori rossi e le nostre tavole si arricchiranno insieme all’ambiente che abitiamo.