«Il vero sistema del biologico, quello che non si limita a un’etichetta ma è un insieme di vita e regole, può vantare risultati di eccellenza nel campo della sostenibilità e della lotta alla povertà»: Fabio Brescacin, presidente di EcorNaturaSì, la principale azienda italiana del bio, lo ha sottolineato partecipando al secondo Simposio internazionale sull’agroecologia e gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (la cosiddetta Agenda 2030), svoltosi di recente a Roma presso l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). La resilienza rispetto alla siccità, ad esempio, è un’urgenza assoluta; e i terreni coltivati biologicamente sono in grado, rispetto ai metodi convenzionali, di trattenere mediamente il 55% in più di acqua grazie alla loro ricchezza di humus, la preziosa componente organica del suolo. Inoltre la bioagricoltura produce il 40% in meno di gas serra rispetto a quella convenzionale.

Bastano tre anni per convertire un campo, e in Italia già oltre il 14% della superficie agricola è in regime bio (con un trend in ascesa). Che impatto avrebbe in termini di contenimento di gas serra un ipotetico passaggio al biologico, biodinamico, in generale a metodi ecologici a livello mondiale?

Faccio un esempio concreto. Gestiamo un’azienda in Molise, su terre di proprietà di un ente di beneficienza; l’abbiamo trasformata in biodinamica. L’agronoma che la segue ha calcolato che con le rotazioni colturali – un principio centrale nell’agricoltura che proponiamo – il bilancio del carbonio è lusinghiero: un’azienda come quella riesce a captare 2,5 tonnellate di carbonio per ettaro all’anno. Allora ci siamo lanciati in una proiezione. Se tutte le terre agricole fossero coltivate in quel modo, in dieci anni si abbatterebbero quelle 50 parti per milione (ppm) di anidride carbonica in atmosfera che sono in eccesso rispetto alla percentuale sostenibile, le famose 350 ppm.

Come mai?

L’agricoltura convenzionale immette carbonio in atmosfera per via dei metodi colturali, dell’impiego di macchinari e delle sostanze di sintesi che utilizza. Queste distruggono l’humus del suolo costruito in tanti anni, da generazioni di coltivatori…Il carbonio fissato nell’humus è vita. In atmosfera diventa veleno! E un’altra cosa: da studente di agraria, tempo fa, feci una tesi sul consumo energetico dell’azienda agricola. Nelle aziende convenzionali, era più l’energia consumata (per le lavorazioni, gli input) di quella prodotta. L’azienda agricola invece deve essere come un pannello fotovoltaico, come ha ben spiegato David Pimentel, già docente di ecologia alla Cornell University.

Si parla di agricoltura rigenerativa…

Perché invece di distruggere rivitalizza. Capta l’anidride carbonica dando una mano al contenimento dei gas serra. Arricchisce la fertilità del suolo. E ovviamente produce cibo sano e buono.

Però c’è chi critica il cosiddetto bio-global, con derrate che fanno il giro del mondo, la proliferazione del contro-stagione, del trasformato…il biologico e biodinamico, coincidono con l’agroecologia oppure no?

Siccome siamo un po’ pionieri, abbiamo visto l’evoluzione. All’inizio, il biologico era dei «duri e puri». Poco alla volta c’è stato un processo di…laicizzazione. Ora in operatori e consumatori vedo la volontà di un ritorno alle origini, seppure con modalità aggiornate. Produzione stagionale. Il più possibile locale. Attenzione ecologica anche intorno al prodotto (per esempio usiamo cassette di lunga durata e che risparmiano spazio nei trasporti). Introduzione dello sfuso e della spina… anche se non convengono per ora, c’è poca sensibilità, occorre ancora fare cultura.

Un vostro progetto speciale?

Compriamo tisane in Egitto da Sekem, un’azienda che ha reso fertile il deserto: 40 anni fa il fondatore invece di investire nel Delta del Nilo scelse le zone aride; adesso dà lavoro a duemila persone, hanno aperto scuole, investito socialmente.

La rivoluzione verde, spiega l’agroecologia, non ha eliminato la fame. Vero. Ma cosa rispondete a chi sostiene che il bio ha rese minori rispetto al convenzionale e che le terre coltivabili del pianeta non sono infinite?

Sul lato delle rese, nei campi si riesce a produrre sempre meglio, anche riducendo gli scarti. Le rese sono un po’ inferiori, ma in compenso si possono coltivare e rendere fertili terreni impoveriti. E poi è imprescindibile andare verso una dieta più sobria. Nutrire il pianeta o no: la scelta è anche nelle mani del consumatore, il quale decide che cosa viene prodotto e come.

Del resto un noto libro dello scrittore e agricoltore Wendell Berry si intitola Mangiare è un atto agricolo… Ma a proposito del “cosa produrre”, appunto, che fare rispetto all’insostenibile consumo di prodotti animali a livello globale, in forte aumento nel Sud del mondo, mentre la riduzione nel Nord riguarda fasce limitate come rilevano i rapporti che la Fao commissiona al gruppo di esperti Hlpe?
Le nostre vendite di carne sono molto basse rispetto ai negozi convenzionali, un decimo direi. I prodotti animali nel biologico costano molto di più perché i disciplinari sono esigenti… E’ necessario ridurre il consumo di carne, ricorrere il più possibile ai prodotti integrali, mangiare in modo sano. Un modello alla statunitense generalizzato richiederebbe un multiplo delle terre davvero disponibili.

La sostenibilità sociale come affronta il tema del giusto prezzo per i produttori agricoli?

Deve essere un cavallo di battaglia del sistema biologico! In questi decenni, la chimica di sintesi in agricoltura e l’ingegneria genetica hanno aumentato le rese ma non hanno certo arricchito gli agricoltori, anzi: li hanno impoveriti perché il mercato globale ha abbattuto i prezzi. Se vogliamo un’agricoltura sana, non è possibile pagare un chilo di pomodori 8 centesimi – noi lo paghiamo fino a 33 centesimi e diversifichiamo il prezzo al produttore anche a seconda delle difficoltà. Usciamo dal meccanismo del prezzo di mercato: creiamo relazioni individuali e facciamo accordi diretti con le aziende agricole, anche impegnandoci all’inizio della stagione con loro stabilendo quanto prodotto possiamo assorbire. Non c’è niente di peggio che lasciare il prodotto in campo, dopo tanta fatica, per mancanza di sbocchi… Abbiamo contatti diretti con 300 aziende. Se ci si incontra ci si comprende. Si comprende che l’interesse di uno è l’interesse di tutti e che avremo sostenibilità in futuro se riusciremo a trovare un sano punto di equilibrio tra tutti gli attori, perché tutti hanno interesse per tutti. Così si potrà continuare con criteri di giustizia a lavorare nei campi ricavando e distribuendo cibo salutare per tutti.

Lei parla spesso del ruolo centrale dei consumatori consapevoli. Ma come la mettiamo con quelli a basso reddito? Si possono permettere il bio, almeno per i prodotti di base?

Già 30 anni fa avevamo fra i clienti anche famiglie non certo benestanti, di operai. E’ ancora così. La scelta di mangiare sano è più culturale ed etica che economica. Noi puntiamo anche sulla formula che chiamiamo Bio per tutti, con prezzi vantaggiosi per i prodotti di consumo quotidiano, essenziali diremmo (un pacchetto di pasta è sui 99 centesimi). Poi, per esempio, in tanti tornano a farsi il pane, a trasformare in casa. Diciamo anche un’altra cosa: in media l’alimentazione incide sul bilancio familiare per il 14%…se anche si spendesse il 50% in più per comprare cibi sani, non sarebbe così disastroso, almeno per la maggior parte. Va anche detto che pochi centesimi in più per un chilo di prodotto fanno una grande differenza per il produttore e non inciderebbero tanto sul prodotto finale, se fossero trasferiti tal quali al consumatore, fuori dal meccanismo dei ricarichi a percentuale. Sarebbe interessante fare una campagna: «10 centesimi in più al coltivatore, 10 centesimi in più dal consumatore per salvare la nostra agricoltura e il nostro pianeta».