Norman Lewis, reporter straordinario e tra i maggiori autori inglesi del ’900, viaggiatore dal piglio antropologico e formidabile inviato di guerra, nel 1969 va nella Foresta Amazzonica e scrive per il Sunday Times un pezzo che fa il giro del mondo: «Genocide in Brasil». Chi come me negli ultimi anni è stato più volte nella selva brasiliana, a Catrimani con il popolo Yanomami, ad Arariboia con i guardiani Guajajara, e al confine con il Venezuela, non può prescindere da questo prototipo del giornalismo, una storia che tristemente ripete il suo copione ormai da oltre mezzo secolo.

Il quotidiano inglese aveva commissionato al celebre giornalista un’inchiesta ad ampio raggio, partita da un’indagine dello stesso governo latinoamericano, che aveva messo sotto processo 143 propri funzionari accusati di oltre mille crimini contro gli indigeni sopravvissuti a una strage paragonabile solo all’Olocausto, cioè la morte di 6 milioni di indios brasiliani. «Dei 19.000 Munducuru che si stimava esistessero negli anni Trenta, ne erano rimasti solo 1.200. Il numero totale dei Guaranì si era ridotto da 5.000 a 3.000. Dei 4.000 Caraja ne erano rimasti 400. Dei Cinta larga, che avevano subito attacchi aerei ed erano stati spinti sulle montagne, ne erano forse sopravvissuti 500 su 10.000», scrive l’autore di Un’idea del mondo (Edt), intrecciando dati storici e statistici, e narrando le ignobili ferocie dello sterminio: «Roghi di massa, fustigazioni, sbudellamenti e mutilazioni», e ancora: «Ci sarebbero stati casi di indios prima spalmati di miele su tutto il corpo, e poi lasciati ai morsi delle formiche fino a morirne». I carnefici protagonisti di quelle pagine sono gli stessi di oggi, fazenderos, speculatori dell’agro business, cercatori d’oro, taglialegna abusivi, allora le grandi compagnie della gomma, magari oggi quelle petrolifere, per non parlare della deforestazione prodotta dalle multinazionali della soia, Archer Daniels Midland, Buge e Cargill, che utilizzano i raccolti della distruzione della foresta per fare mangimi animali, destinati soprattutto al mercato europeo.

Se uno s’imbatte nell’opera monumentale di una delle figure più rappresentative e carismatiche della cultura amazzonica, lo sciamano Yanomami Davi Kopenawa, La caduta del cielo (Nottetempo), si rende conto della ricchezza spirituale, del valore cosmologico e insieme ecologico dei popoli nativi, patrimoni di conoscenze e credenze cancellati dall’orda capitalistica in nome di una presunta supremazia costruita su un preconcetto razziale.

A seguito di quel celebre reportage di Lewis che scosse le coscienze britanniche, nacque «Survival international, movimento mondiale per i popoli indigeni» (www.survival.it), che definì egli stesso «il più grande successo della mia vita professionale», il quale proprio in questi giorni lancia un grande appello affinché la Funai (Fondazione nazionale dell’indio), l’ente statale preposto a difendere i territori e i popoli, non sia esautorata e resti nel Ministero della giustizia invece che in quello dell’Agricoltura, attraverso una lettera indirizzata al nuovo Presidente Jair Bolsonaro, al Ministro straordinario Onyz Lorenzoni e al Giudice Sergio Moro.
Nella stessa si legge: «In Brasile vive il maggior numero di popoli incontattati. Per anni il mondo ha guardato al Brasile come a un punto di riferimento per il suo lavoro e le sue politiche tese a rispettare il loro diritto di scegliere liberamente come vivere. Ci aspettiamo che il vostro governo sia d’esempio nel proteggere la terra di queste tribù per impedirne il genocidio, permettendo loro di sopravvivere e prosperare. Anche gli esperti del dipartimento del Funai per gli Indiani incontattati hanno chiesto che l’agenzia rimanga sotto il Ministero della Giustizia, sottolineando l’importante esperienza che il Brasile ha maturato nella protezione delle terre e delle risorse naturali dei popoli incontattati, e la responsabilità dello Stato nella difesa di questi territori. (…) Vi esortiamo a rispettare la costituzione del Brasile e le convenzioni internazionali che il Paese ha ratificato, e ad assicurare che i territori indigeni siano demarcati e protetti da interventi esterni e da invasioni illegali, per garantirne l’uso esclusivo da parte dei popoli indigeni. (…) Per la sopravvivenza dei popoli indigeni del Brasile, per la protezione dei territori a più alta biodiversità del Paese, per la salute del nostro pianeta e per tutta l’umanità».

La parola genocidio è tornata più forte di quando Lewis la pronunciò, perché molti popoli indigeni brasiliani rischiano l’estinzione o sono attaccati nelle terre dove vivono, come i Gamela aggrediti nel loro territorio ancestrale da allevatori spietati, o i Kawahiva incontattati del Mato Grosso, costretti a vivere in fuga per salvarsi nella loro foresta, gli Awà nel Maranhão, la resistenza dei Guaranì, invasi dai coloni, i loro leader vengono brutalmente uccisi e i loro bambini muoiono di fame, l’epidemia di morbillo che ha colpito gli Yanomami isolati al confine tra Brasile e Venezuela, una regione invasa dai cercatori d’oro.

Jair Bolsonaro, «il Trump tropicale», come è stato definito, sostenuto da uno dei gruppi economici più potenti del paese, quello dell’agrobusiness, è stato chiaro in campagna elettorale: «Nemmeno un centimetro quadrato in più agli indios», ha detto. «Il clima politico ostile ai popoli indigeni si è rafforzato negli ultimi anni; il Congresso è, infatti, dominato dalla lobby agro-industriale che fa parte della cosiddetta «BBB» (boi, bala e biblia), un gruppo di politici con forti interessi in agricoltura, nella chiesa evangelica e nella lobby delle armi», mi ha detto Sarah Shenker di Survival quando ci siamo incontrati nel novembre scorso a Imperatriz. «Se i loro diritti territoriali non saranno rispettati sarà una tragedia per la loro sopravvivenza e per quella della foresta Amazzonica – con conseguenze drammatiche per il nostro pianeta e per i tentativi di mitigare i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale».