L’esaurimento dei fosfati è solo uno dei tanti campanelli d’allarme che ci spinge a cambiare sistema di produzione del cibo, passando a tecniche meno invasive e più rigenerative del suolo e dell’agroecosistema. Una transizione necessaria, ma tutt’altro che facile: ci vogliono molti anni, a volte decine, per rendere nuovamente fertile un terreno su cui si sia praticata agricoltura intensiva per molto tempo. Esistono tuttavia delle tecniche per accelerare questi processi; l’Agricoltura Organica e Rigenerativa (Aor) è una di queste. Abbiamo chiesto a Elisa Decarli, agronoma dello staff tecnico di Deafal, di spiegarci in cosa consiste. Deafal è una Ong che si occupa di cooperazione allo sviluppo, educazione alla cittadinanza globale e rigenerazione dei suoli e delle comunità.

Come si restituisce fertilità a un suolo?

Inutile dire che non esiste una ricetta assoluta. Esistono però dei principi di base dell’agricoltura rigenerativa che sono validi più o meno sempre. Ad esempio, tra le prime operazioni eliminiamo ogni apporto di concime inorganico e lo sostituiamo con adeguati apporti di concimazioni organiche, ad esempio compost di alta qualità. Può essere vegetale, può provenire dalle lavorazioni del letame, non importa, ma deve essere di qualità, ossia avere un’efficacia sulla ristrutturazione del terreno, sulla formazione di humus, sulla ricostruzione della rete alimentare del suolo.

È facile trovare compost di qualità?

Sì e no. Fortunatamente negli ultimi anni il mercato del compost è esploso, il che significa maggiore disponibilità ma anche tanti prodotti scadenti, visto che molte ditte ci stanno vedendo un business nella produzione di concimi organici. Una cosa che noi consigliamo sempre agli agricoltori, quando si riforniscono dagli impianti di compostaggio, è di farsi dare le analisi di base, perché da alcuni semplici parametri si può capire se il compost è più o meno buono. Ad esempio già il solo fatto di avere un compost molto salino non è una buona cosa per le piante e i microrganismi del terreno. Ci sono poi tecniche molto empiriche visive e tattili per capire che materiale abbiamo davanti.

Gli impianti di compostaggio industriale producono un buon compost?.

Dipende da molti fattori, dal tipo di impianto, da quanti rivoltamenti vengono fatti, da che tipo di vagliatura si utilizza, dai tempi di maturazione, dai materiali da cui si parte, se ci finiscono dentro i residui urbani. Negli ultimi anni si è aggiunto il problema delle plastiche biodegradabili che non lo sono del tutto oppure necessitano di un’adeguata lavorazione, per cui se il sistema non è organizzato per processare anche questi materiali finisce nei campi materiale non idoneo.

Torniamo ai principi dell’agricoltura rigenerativa.

Un altro aspetto fondamentale è alimentare e riprodurre il più possibile la flora microbica presente nel terreno, anche con inoculi mirati dall’esterno se necessario, in modo da ricostruire la rete alimentare terricola da cui dipende la nutrizione delle piante. Ciò significa anche interrompere tutte le lavorazioni intense del terreno, che ne stravolgono l’equilibrio. Quindi niente aratura profonda, piuttosto lavorazioni minime e leggere o addirittura il no-tillage ovvero la non lavorazione, la semina diretta su sodo con macchine particolari. Utilizziamo molto anche le cover crop, gli erbai che vanno a intercalarsi fra due coltivazioni principali, in modo da tenere il terreno coperto durante tutto l’anno.

Quali sono le tempistiche di recupero di un terreno?

Il recupero è lungo. Devo essere onesta, non si cambia da un anno a un altro. Se come tecnico dovessi partire da un terreno molto compatto e con un tenore di sostanza organico basso, ad esempio dell’1% o inferiore come quello che molti terreni della Pianura Padana hanno, non mi aspetterei di risolvere il problema in 2-3 anni. Penso che ci vogliano 7-8, 10 anni, anche di più.

Le rese di un’agricoltura più ecologica fatta su un suolo rigenerato sono paragonabili a quelle dell’agricoltura intensiva?

Questa è una classica critica che viene rivolta all’agricoltura organica. In alcuni casi è così, la resa dell’agricoltura organica è leggermente più bassa di quella dell’agricoltura «chimica», anche se non sempre. Soprattutto, i conti fatti solo sulle rese sono conti poco veritieri, perché non si prendono in considerazione un sacco di altri fattori: ci sono le qualità nutritive dei prodotti che si ottengono da un suolo più«sano» ed equilibrato, c’è la stabilità nel tempo del sistema produttivo, c’è il valore dell’azienda agricola in termini di presidio del territorio e la rete che essa crea su quel territorio. E poi c’è l’importanza di un terreno in salute, strutturato, poroso, nella prevenzione dal dissesto idrogeologico e altri eventi catastrofici: terreni compatti e sterili non trattengono l’acqua e favoriscono allagamenti e inondazioni in caso di eventi climatici estremi, mentre in periodi di forte siccità non sono in grado di trattenere più acqua al suo interno negli strati. In epoca di evidenti cambiamenti climatici non sono fattori da sottovalutare.

Come vede il futuro? La consapevolezza sul tema sta crescendo?

Negli ultimi 5-10 anni è aumentato sia il dibattito che l’interesse attorno al suolo, che per troppi anni è stato considerato solo un substrato su cui le piante crescevano. Ma i cambiamenti nel comparto agricolo sono lunghi, legati alle stagioni, ai cambi generazionali e, purtroppo, anche al tipo di finanziamenti disponibili, come quelli derivanti dalla Pac che nella sua nuova formula, ancora troppo legata ad un modello di agricoltura «industriale», ha disatteso molte speranze. Siamo in un «limbo», è cresciuta l’attenzione ma rispetto all’urgenza i cambiamenti sono ancora lenti.