I recenti dati Svimez andrebbero letti alla luce dell’Anagrafe del Miur sulle immatricolazioni all’Università, radicalmente scese con punte altissime al Sud (45 mila iscritti in meno in 10 anni) in favore a tratti degli atenei del Nord. Si rende evidente come la crisi economica e sociale del Sud sia aggravata dalla costante fuga dei giovani e dalla loro rinuncia a concepire la formazione come un’opportunità. Questi dati hanno costretto il presidente del consiglio ad aprire una “riflessione” nel Pd e nella maggioranza sulle politiche per il Sud, anche se al momento non esiste una delega per nessun ministro o sottosegretario su questi temi.

Naturalmente colpisce che ciò avvenga dopo aver sottratto le risorse dei fondi strutturali per finanziare gli sgravi sulle nuove assunzioni. L’esito della riflessione sul Mezzogiorno viene comunicato dal pirotecnico presidente del consiglio con il solito annuncio di investimenti condito dalla retorica stantia del Sud che si piange addosso. Guardando al Sud attraverso la lente dell’Università vediamo, quindi, con maggior chiarezza che non di disinteresse si tratta ma di pianificato abbandono.

Dal 2008 in avanti, il sistema universitario italiano ha visto complessivamente una sottrazione di 1,5 mld di euro a cui si è accompagnata la legge 240/2010 necessaria a legittimare i tagli pianificati. Queste scelte hanno avuto effetti drammatici sull’offerta formativa, indebolito la capacità di ricerca, cronicizzato il ricorso al lavoro precario pregiudicando la funzione pubblica e la missione istituzionale dell’Università proprio in una particolare congiuntura che avrebbe richiesto la sua completa realizzazione. Si tratta, del resto, di misure che si ispirano a principi affatto originali. E’ l’onda lunga di quel processo neoliberale di ristrutturazione delle agenzie formative e più in generale dei settori pubblici tornato di gran moda nel nostro paese. L’esito di queste politiche è sotto gli occhi di tutti: l’Italia si colloca ben al di sotto della media europea per finanziamenti all’Università, per numero di studenti iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione.

La nostra Università vive, quindi, uno stato di emergenza complessiva, ma in questo quadro risulta altrettanto evidente che in alcune zone del paese, il Sud in particolare, questa situazione è particolarmente grave. La ragione risiede nelle diverse condizioni di partenza degli atenei del Sud ma soprattutto a causa degli indicatori di valutazione utilizzati per lo stanziamento delle poche risorse disponibili che hanno notevolmente sfavorito gli atenei meridionali. In sostanza in questi anni di riduzione costante delle risorse si è verificato un processo di redistribuzione delle stesse a svantaggio della maggioranza degli atenei del Sud.

Consideriamo ad esempio il caso dei punti organico (Po), che riguardano direttamente la possibilità di un ateneo di assumere e cioè di ricambiare e ringiovanire la propria classe docente. In questi anni le politiche premiali hanno pesantemente sfavorito gli atenei meridionali. Solo quest’anno lo stacco di Po tra atenei del Centro Nord e del Sud è di 18 punti percentuali (calcolati rispetto alla distribuzione che si avrebbe se il tetto massimo fosse stabilito a livello di ateneo e non di sistema).

Caso emblematico è quello della Sicilia che perde ben 29 punti organico e della Campania che si assesta a -19. Si sta verificando un ridimensionamento selettivo del sistema universitario che sottostà alla precisa logica di concentramento delle risorse in pochi atenei. Questo ha portato ad una assurda competizione per l’accaparramento dei pochi finanziamenti disponibili in cui il meridione resta comunque affossato. Come dettagliatamente riporta Beniamino Cappelletti Montano su “Roars” «quasi 700 ricercatori prelevati dagli organici delle università del Centro-Sud e trasferiti d’ufficio negli atenei del Nord-Italia nel corso di soli quattro anni»: all’indomani dell’assegnazione 2015, questo è il travaso complessivo prodotto dai perversi meccanismi dei punti organico”. Complessivamente in 4 anni il Sud perde 281 punti organico, il Centro 60 mentre il Nord ne guadagna 341 con un privilegio particolare per la Lombardia e per le cosiddette università speciali come il S. Anna di Pisa, L’Imt di Lucca, l’Università per stranieri di Siena e immancabilmente l’Università del ministro in carica.

L’assunto da cui partono i difensori di queste politiche è noto: bisogna sostenere le eccellenze. Un approccio primitivo ai problemi del nostro sistema di istruzione e ricerca che nasconde la copertura di interessi concentrati in alcune aree geografiche ben localizzate. Soprattutto un approccio mistificante perché l’assegnazione dei punti organico prescinde ampiamente da qualunque valutazione sulla qualità della ricerca o della didattica ma si basa su parametri di carattere esclusivamente patrimoniale e finanziario peraltro premiando chi aumenta le tasse agli studenti sforando il tetto massimo previsto dalla legge.

La penalizzazione degli atenei del Sud, e non solo, si intreccia, infatti anche con il progressivo indebolimento di molte discipline che in quelle Università vantano scuole importanti. Colpisce coloro che lavorano e colpisce soprattutto gli studenti.

Sacrificare, come sta già avvenendo, un sistema universitario diffuso con una qualità media elevata significa rinunciare ad una rete universitaria che rappresenta una fondamentale infrastruttura a vantaggio di una idea astratta di eccellenza completamente scollegata dai bisogni reali delle persone e del paese.
Le ideologie che sostengono il verbo dell’eccellenza dietro cui cercano di celare il carattere essenzialmente classista di ogni policy suggerita e poi applicata negli ultimi anni al sistema dell’istruzione si nutrono generalmente del contributo, trasversale, di molti media.

a ultimo Il Fatto Quotidiano il cui vicedirettore si chiede, se sia «davvero utile sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente». Si riferisce alle facoltà umanistiche che non offrirebbero grandi opportunità occupazionali, comportando, comunque, retribuzioni basse per i pochi fortunati che trovano lavoro. Come se il problema fossero le scelte degli studenti e non una domanda da parte delle imprese italiane di qualifiche basse e medio basse conseguenza di una specializzazione produttiva sempre più inadeguata. Come se il problema non fosse una politica di deflazione salariale che ha contributo ad aggravare la crisi in cui ci troviamo.

Dal nostro punto di vista la ricetta è esattamente l’opposto: servono più ricercatori, più offerta universitaria e rifiuto delle categorie suicide di adeguamento alla domanda del mercato e di eccellenza.
Serve costruire un sistema universitario nazionale non competitivo ma cooperativo, partendo dalle aree territoriali dove maggiore è il ritardo nello sviluppo attraverso la creazione di reti reali tra gli atenei per realizzare una offerta didattica integrata. In un territorio come quello italiano caratterizzato da forti ritardi e differenze al suo interno l’Università deve rappresentare la possibilità di riscatto. In particolare per le aree economicamente più deboli e messa nelle condizioni di assolvere alle sue molteplici missioni. Didattica di qualità, ricerca di frontiera e applicata, innovazione tecnologica, creazione di opportunità di impiego anche attraverso percorsi di formazione permanente, qualificazione del tessuto produttivo ma soprattutto possibilità di scelte consapevoli per un numero sempre maggiore di persone.

Sono indispensabili finanziamenti, superamento dell’idea di premialità, qualificazione dell’offerta formativa, costruzione di un vero sistema di diritto allo studio, nuove assunzioni partendo dai precari che consentono alla macchina ancora di funzionare.

* Segretario nazionale Flc-Cgil, ** Coordinatore studenti universitari Link