Quali sono i mali comuni? «Inquinamento, cambiamenti climatici, estinzione di specie, carestie, migrazioni, pandemie, ingiustizie e disuguaglianze destinate a essere ulteriormente acuite anche da un uso egoistico e mercantile delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale». A ben vedere, però, questi mali comuni sono la conseguenza del nostro agire dissennato e destinato, ancora di più, a produrre guasti che, non si deve temere di scriverlo, vanno definiti irreparabili. Questo perché l’agire non è stato preceduto da quel necessario lavoro teorico, dal pensare, senza il quale ciò di cui siamo parte, e con cui siamo chiamati a fare i conti, in quanto esseri senzienti, cioè la natura, non è presa nella considerazione che meriterebbe. Da queste questioni, legate all’elenco fornito nell’incipit, prende le mosse Orlando Franceschelli nel suo ultimo lavoro, Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (Prefazione di Telmo Pievani, Donzelli, pp. 155, euro 18,00) con il quale continua una ricerca iniziata tempo fa riflettendo sulla felicità possibile e sul discernimento di bene e male.

COME ORIENTARSI nel pensiero?, ricordava un paio e più di secoli fa Kant. Ma non basta orientarsi nel pensiero, dopo aver pensato, se non si tengono insieme la teoria e il fare. E mentre il filosofo di Königsberg perveniva alla conclusione di una «metafisica che si presenterà come scienza», ben sapendo che, per quanti sforzi si facciano, l’evento vada ricondotto nel campo dell’impossibilità, oggi conviene, a fronte dei mali comuni, pensare alla scienza in senso stretto quale manifestazione del pensiero, del fare del pensiero. Senza teoria intesa, come ammonisce Franceschelli, nel senso letterale, ossia «vedere, osservare, esaminare con attenzione», quindi senza osservazione e studio del mondo, diventa complicato capire i problemi di questo qui ed ora. Questo è il campo specifico della filosofia, della prassi della filosofia, sottratta, sottolinea l’autore, alla metafisica sotto qualunque veste si presenti, soprattutto come idealismo. D’altronde il campo d’osservazione del pensiero, ovvero della filosofia, è la natura che, a differenza di quanto sostenuto dall’idealismo, non è né un altro da sé (Hegel) né un «fantasma» (Croce): è ciò la cui sempiternità sottrae il pensiero che la osserva (non che la pensa in quanto la natura è «ontologicamente prioritaria rispetto al pensiero») a ricorrere al Dio creatore in quanto essa c’è sempre stata e sempre ci sarà (nella Prefazione Pievani fa presente che la parola natura va declinata al futuro poiché in latino sta per «colei che sta per nascere» e mai sarà moritura).

FERMO RESTANDO (e questo è uno dei punti di forza dell’argomentazione di Franceschelli) che la creazione è plausibile e chi vuole, per fede, può crederle senza che si aprano, però, guerre di religione contro chi, altrettanto plausibilmente, non crede.
Noi esseri senzienti abitiamo il tempo dell’Antropocene; anzi, precisa l’autore, del Capitalocene. È proprio in quest’epoca, la cui nascita è databile con la rivoluzione industriale, che abbiamo verificato due cose: la nostra eco-appartenenza, il nostro vivere con la natura e nella natura, e le sofferenze planetarie che il nostro agire senza teoria ci ha procurato. Franceschelli invita a coltivare una seria e meditata, perché frutto di un lavoro teorico, direbbe Lukács, ben fatto, pedagogia della sofferenza che si alimenti di solidarietà, non guardi ad innaturali, proprio perché fuori dalla natura, soluzioni millenaristiche e futuriste riconducibili alla redenzione intesa come esilio da questo mondo e rifugio in un altro mondo situato, avrebbe detto Leopardi, «più alto del campanile, più giù del pavimento».

Franceschelli invita a tenere presenti due dati di fatto: 1) «le ferite ecologiche che ormai coinvolgono l’intero pianeta»; 2) la scarsa utilizzazione, seppure «con moderazione, solidarietà e lungimiranza», da parte di Homo sapiens, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche oggi in suo possesso.

PARTENDO da questi due dati di fatto, la pedagogia della sofferenza spinge alla valorizzazione della nostra inclinazione al bene, riporta al centro della vita degli umani il nesso pensare-agire, quasi obbliga ad una osservazione del mondo al fine di trasformarlo, come scriveva Marx, e non soltanto contemplarlo, come le usurate e stantie metafisiche si ostinano ancora a fare, nell’ottica della presa di coscienza di cosa e di quali siano i mali comuni. Insomma, se all’inizio la filosofia nasceva dalla meraviglia, oggi si pone come riflessione sul mondo e sulla sofferenza di chi lo abita al fine di individuare la modalità di agire verso il bene di tutti, operando il passaggio dal cosmopolitismo della sofferenza a quello del bene, verso una felicità possibile.