A scuola, di fronte alla traccia che chiedeva di commentare un pensiero di Marc Bloch – «l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato» – Michele, uno dei protagonisti, forse il protagonista di questo formidabile affresco che è La ferocia di Nicola Lagioia (Einaudi, pp. 418, euro 19,50 ), aveva consegnato un foglio con disegnati ai bordi strani animaletti e nella parte centrale un lungo periodo sconnesso e insensato in cui l’unico elemento di significato era una citazione, che altro non è se non la prosecuzione del pensiero di Bloch: «forse però non meno vano è tentare di comprendere il passato dove nulla si sappia del presente».

Per molti versi questo impegnativo romanzo nel quale la vicenda si dipana come a strati, un po’ alla volta, può essere letto a partire da qui. Il mondo che vi viene infatti raccontato – Bari, la Puglia, il Mezzogiorno, l’Italia contemporanea, questo tempo nel quale ci troviamo immersi oggi, nella sua apparentemente lineare semplicità, una catena trasparente di cause ed effetti, di condizionamenti ambientali, di regole comportamentali elementari – è in realtà del tutto opaco e buio se non viene letto, verrebbe da dire, genealogicamente, andando alle radici delle vicende esistenziali che hanno segnato in modo indelebile la vita di quella sorta di bestiario umano che è la famiglia Salvemini di cui qui si racconta.

Il bestiario è peraltro un elemento decisivo e niente affatto metaforico: le incursioni nel regno degli animali non umani – la gatta, i topi di fogna, gli uccelli che muoiono nel modo più innaturale, e cioè precipitando come impazziti a causa delle scorie tossiche sepolte in quelle terre magnifiche già devastate in superficie dagli uomini e ora anche in profondità dai loro rifiuti – sono chiavi di lettura, tracciati di senso ed esempi di coerenza, capaci, come in controluce, di rivelare l’assurdità e la ferocia, appunto, di un mondo umano retto anch’esso da regolarità indiscutibili e rigidi meccanismi ai quali sembra che nessuno si possa sottrarre, come se nulla potesse davvero metterle in questione. Nulla, se non un gesto radicalmente e tragicamente umano, un gesto che sia in grado di incarnare la naturale innaturalità di questo animale spietato che è l’animale umano.

Tutto il romanzo di Lagioia ruota attorno a questo nodo irrisolto, contraddittorio e terribilmente lacerante: il riconoscimento, cioè, che la natura umana si esprime per quel che è in una qualche forma, eroica o banale, distruttiva o autodistruttiva, di negazione della natura. Se c’è una scienza in grado di interpretare questo tempo, questo nuovo secolo che è ancora agli albori – dice a un certo punto uno dei personaggi (un corrotto che lavora con le squadre del bene) – questa è l’etologia, la scienza del comportamento degli animali, la disciplina che studia i nessi di necessità a cui essi rispondono: «Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare», dice; e aggiunge, quasi come sfida, «trovami il colombo che non vola».

Ma la persona a cui lo dice, Michele, è proprio il colombo che non vola; un disadattato (da interpretare anche qui etologicamente come non adatto all’ambiente nel quale si trova a vivere) un depresso, uno che ha avuto bisogno – o a cui hanno imposto – cure psichiatriche, un incapace, secondo gli standard richiesti e imposti, uno che di fronte a un problema di matematica, a scuola, non segue la via tracciata, consueta, ma come una sorta di alpinista ne apre una nuova, che spesso non gli consente di arrivare alla meta, ma che non per questo è falsa.

Una persona, appunto, proprio per questo capace di un gesto profondamente umano, adeguato, per una volta, a quella stramba naturalità che appartiene a questi complicati animali che sono gli umani: un gesto innaturale, assurdo, inatteso. Un uomo capace di un’azione contraria alle leggi della natura e proprio per questo umana.

Le leggi della natura non sono infatti solo quelle della fisica, della caduta dei gravi o della termodinamica: per queste forme di vita che sono gli umani, le leggi della natura si muovono nelle bordature incerte e slabbrate che separano e uniscono fisica, chimica, biologia, antropologia, psicologia e sociologia. Per queste nature innaturali che sono gli umani, infatti, la stessa storia, il passato di cui non sempre sono consapevoli, le vite che stanno loro alle spalle e delle quali non sono e non possono essere responsabili, è natura. Il groviglio di vicende e di esistenze da cui provengono determina le vite che vengono dopo, determina, suo malgrado, la singola esistenza, costringendola ad assumersi innaturalmente la responsabilità di ciò di cui non è e non può essere responsabile.

È questo il grande tema del romanzo di Lagioia: un tema per molti versi classico, che richiama le tragedie greche e la questione ineludibile del rapporto fra scelta e destino, che richiama la grande tensione goethiana tra natura e storia, che rinvia in modo decisivo al più goethiano degli scrittori novecenteschi, e cioè a Thomas Mann, ai Buddenbrook in particolare, a questa idea per cui in un individuo – si pensi ad Hanno Buddenbrook – precipita misteriosamente e necessariamente l’insopportabile pesantezza dei cicli generazionali che l’hanno preceduto, come se una serie di traiettorie diverse, indipendenti e autonome, per quanto relate l’una all’altra, si concentrassero nella gravità evanescente, eppure esistente, di un punto. Anzi, nel caso del romanzo di Lagioia, di un punto che ha due lati che si sostengono a vicenda, due facce: quella di Michele, appunto, l’ultimo erede di questa famiglia, l’atomo sfinito su cui pesa la responsabilità della deflagrazione, e quella di Clara, l’amata sorellastra, che muore già all’inizio di una morte incomprensibile e la cui storia è il percorso stesso di questo viaggio nella profondità del tempo di cui il romanzo consiste.

Clara è figlia dello stesso padre, ma non della stessa madre di Michele; è la figlia naturale di Vittorio, un uomo solido e bestiale, duro come una statua di marmo, ma disposto a rivelare anche le proprie debolezze pur di raggiungere l’obiettivo, e di Annamaria, la moglie borghese, lucida e fredda, che sopporta tutto, anche il tradimento, pur di avere garantito il privilegio. Michele è nato invece al di fuori del matrimonio da una relazione tra Vittorio e una donna molto amata che muore nel dare alla vita questo figlio bastardo.

Michele viene dunque al mondo già ferito e al di fuori di quella peculiare natura che è per gli umani il sedimentarsi dei loro costumi e delle loro pratiche di vita in norme sociali e leggi. Ed è animale ferito e bastardo, che ha sporcato la purezza di una razza, e allo stesso tempo appartiene a quel mondo e a quella storia, ma ne è anche ai margini e per molti aspetti fuori. Per Clara, però, la sua naturalità, il suo appartenere pienamente alla storia da cui proviene, è essenzialmente colpa e destino e il suo avocare a sé tutto il lerciume e il dolore del mondo è l’unico gesto che le sembra concesso per salvare la fragilità di un fratello su cui pure peserà il peso tremendo della decisione. Solo Michele può infatti decidere. Solo chi è a un tempo dentro e fuori può vedere la verità della storia.

Un tema classico dunque, che è però declinato dentro la più vivida e carnale delle contemporaneità, trasformando, ancora una volta alla maniera di Mann, le vicende di questa famiglia potente, di un potere recente, conquistato con la ferocia che si addice ai meccanismi insieme primitivi e moderni del mercato, nel ritratto di un’epoca e di un mondo che non possiamo non riconoscere, attraverso questo romanzo, se non appunto, tragicamente, come questa nostra epoca e questo nostro mondo.