Yehya, 29 anni, è bloccato in Nepal da quasi cinque mesi. Il suo viaggio di piacere si è trasformato in un incubo quando il Libano lo scorso marzo ha chiuso i suoi confini, e altrettanto ha fatto il Nepal, per arginare la diffusione del coronavirus.

La sua vicenda è stata raccontata dal giornale L’Orient-Le Jour non tanto perché rappresenta la condizione di tanti altri libanesi bloccati all’estero. Quanto per spiegare le conseguenze delle restrizioni draconiane adottate dal sistema bancario nazionale dopo il crollo della lira libanese e la scomparsa dei dollari dal mercato.

YEHYA SOPRAVVIVE in Nepal con 30 dollari al mese, la somma più alta che dal primo giugno la sua banca gli permette di prelevare dagli sportelli Atm.

Al di là delle restrizioni che colpiscono gli sventurati rimasti bloccati all’estero, vivere con poche decine di dollari al mese, e talvolta neanche quelli, è la condizione di almeno il 40% della popolazione del paese dei cedri precipitato in una crisi economica gravissima.

La fame è uno spettro concreto. A tenerla ancora a distanza dai poveri vecchi e nuovi, quelli trascinati nella miseria dalla svalutazione della lira e dalla disoccupazione rampante, è la solidarietà di parenti e amici. L’indebitamento è un mostro con cui decine di migliaia di famiglie libanesi saranno costrette a fare i conti, presto o tardi.

PANE E LAVORO, lotta alla corruzione, niente tasse senza servizi e il rinnovamento profondo della classe politica. Sono questi alcuni dei punti che avevano portato in piazza lo scorso ottobre e ancora in queste ultime settimane i libanesi ridotti alla fame, esasperati, di qualsiasi orientamento politico e credo religioso: sunniti, cristiani, sciiti, drusi.

Eppure sabato tanti tra i manifestanti che hanno messo a ferro e fuoco il centro di Beirut non erano animati da quelle motivazioni che uniscono tutti i libanesi. Non erano spinti dall’urgenza di rispondere ai bisogni della popolazione impoverita e dal desiderio di un Libano governato bene.

Quei manifestanti, una porzione ma ben nutrita, delle migliaia che hanno affrontato le forze di sicurezza davanti al Parlamento e ai vari ministeri, stavano lì con in testa l’agenda politica delle formazioni del «Fronte 14 marzo» che fa capo all’ex premier sunnita Saad Hariri e di cui fanno parte partiti di destra come le Forze libanesi.

Il loro unico scopo era puntare l’indice, approfittando della presenza delle telecamere di mezzo mondo, contro il movimento sciita filo-iraniano Hezbollah e i suoi alleati come male assoluto, la causa di ogni problema.

L’ESPLOSIONE AL PORTO del 4 agosto e l’arrivo a Beirut come salvatore della patria del presidente francese Macron, hanno fornito al «Fronte 14 Marzo» l’opportunità che attendeva per dare una spallata al governo in carica da pochi mesi – di ampia coalizione ma reo di avere il sostegno anche di Hezbollah – e per invocare l’immediato intervento, non solo economico, degli Usa e della ex potenza coloniale francese in Libano.

LE RAGIONI DELLA PROTESTA vera del popolo libanese contro l’intera classe politica, senza eccezioni, che ha portato alla catastrofe il Libano, sono rimaste ai margini. Sono stati simbolicamente “impiccati” solo i due leader sciiti, Hassan Nasrallah e Nabih Berri, descritti come «terroristi» da gruppetti di manifestanti.

Applausi invece per Saad Hariri che pure è stato più volte primo ministro negli ultimi 15 anni con esiti disastrosi ed è l’esponente più in vista di una famiglia legata a doppio filo agli interessi sauditi nel paese dei cedri e accusata di gravi speculazioni edilizie (e non solo). Tralasciando le scontate reazioni dei sostenitori del campo opposto, l’«8 Marzo», che fa capo a Hezbollah, dubbi e preoccupazioni sono state espressi anche da analisti di certo non vicini all’Iran.

«Stavolta i manifestanti non rappresentavano tutte le confessioni, il popolo, i poveri, bensì la metà ideologica, quella anti-sciita, anti-Hezbollah, anti-Iran, anti-Cina e anti-Russia – ha scritto Pierre Balanian sull’agenzia cattolica Asianews – Gli slogan cantavano ‘Dimissioni del governo’; ‘Vogliamo Beirut disarmata’; ‘No alle armi di Hezbollah’. Di fatto, tutte queste richieste sono rivendicazioni politiche di parte, ben definite, non più slogan contro la corruzione, la fame e per la giustizia sociale».

SULLO SFONDO di manifestazioni che si incanalano nella frattura politica che lacera il Libano da due decenni, restano il debito da 100 miliardi di dollari e la compagnia elettrica (controllata come il porto da più fazioni) che non fornisce energia ai cittadini ma registra perdite per 1,5 miliardi di dollari l’anno. E la corruzione dilagante.

Secondo Transparency International il 37% dei libanesi paga mazzette piccole e grandi per ottenere ciò a cui ha diritto.