Mont Plaisant o della memoria perduta dell’Africa. Attraverso i ricordi di Sara, che negli anni Trenta del secolo scorso, a soli nove anni, era stata destinata a diventare una delle trecento mogli del sultano dei bamun Njoya, esiliato dai francesi nella città di Yaoundé a causa dei suoi contatti con i tedeschi all’epoca della Prima guerra mondiale, Patrice Nganang ci guida alla scoperta della complessa storia del Camerun, attraversato da successive ondate coloniali, ma dove, malgrado la presenza europea o meglio in un costante braccio di ferro con essa, cresceva anche una cultura raffinata di cui oggi rimangono solo labili tracce. Un modo, per questo intellettuale e scrittore camerunense, impegnato nel rinnovamento politico e culturale del suo paese, di riaffermare come l’identità africana non possa essere letta solo attraverso il prisma postcoloniale, ma rappresenti un continuum che attraversa il tempo e le vicende umane.

Al pari delle sue ricerche accademiche, «Mont Plaisant» indaga il periodo coloniale e una figura come quella del sultano Njoya di cui perfino in Camerun è rimasta scarsa memoria. Perché questa scelta?
La versione ufficiale della storia camerunense comincia con gli anni 50, durante la battaglia per l’indipendenza. È mia convinzione che perlomeno la storia intellettuale del paese inizi invece molto prima. Proprio Njoya era stato l’autore di diversi libri, come il Saa’ngam, le memorie dell’impero bamun che finì di scrivere nel 1921, un libro sul sesso e una grammatica che quasi nessun camerunense conosce al giorno d’oggi. Il sultano aveva anche inventato una lingua e riunito artisti e architetti nel suo palazzo, incoraggiato lo sviluppo delle arti ed era lui stesso uno scultore. Solo che di tutto questo nessuno sembra interessarsi, neanche i ragazzi che, come scrivo nel romanzo, giocano nella zona di Nsimeyong, a Yaoundé, dove sorgeva il suo palazzo. Eppure sono profondamente convinto che non si possa davvero comprendere il postcolonialismo se non si tiene conto di quanto accaduto in tutta l’Africa tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento. Vale a dire, se non si è esplorato il linguaggio e le storie dei nostri nonni.

Le vicende di Njoya non hanno però affascinato la generazione che ha lottato per l’indipendenza del Camerun, al contrario.
La storia contemporanea dell’Africa si è giocata all’incrocio tra colonialismo e nazionalismo. Prima si è scritto degli africani attraverso le figure e il contesto della colonizzazione e, in seguito, all’ombra dei movimenti per l’indipendenza, con l’esclusione dalla narrazione pubblica di quei personaggi ritenuti scomodi perché mettevano in discussione il fatto che si stesse creando un mondo del tutto nuovo. Il sultano Njoya fa parte di queste figure cancellate dalla memoria nazionale. E questo a causa di diversi fattori: aveva collaborato con i colonialisti, sia tedeschi che inglesi; sembrava incarnare quel mondo tribale che la modernità nazionalista intendeva lasciarsi alle spalle e, infine, perché la sua immagine legata alla cultura tradizionale cozzava con quella dei nuovi leader che avevano magari studiato nelle scuole religiose degli europei. Njoya era però visto con sospetto anche dai colonizzatori, perché rifiutava il cristianesimo e aveva scritto un testo sulla sessualità e le posizioni dell’amore che non era proprio il genere di libro di cui i coloni timorati di Dio avevano voglia di discutere.

Nel ricostruire le vicende camerunensi di quel periodo, lei racconta di quegli africani che negli anni Venti cercarono fortuna in Germania, vale a dire nel paese dei loro colonizzatori, e di cui rimane traccia in alcuni film dell’epoca. Questo mentre il nazismo muoveva i suoi primi passi…
Prima di lavorare al romanzo ho frequentato a lungo gli archivi, non solo alla ricerca di testi, ma anche di foto e documentari e mi sono imbattuto in diversi personaggi camerunensi che avevano viaggiato a lungo in Europa. Si tratta di materiali preziosi perché di quella stagione non ci sono più testimoni viventi. Si è soliti immaginare la relazione tra l’Africa e l’Europa come qualcosa di recente e si ignora come già negli anni Venti, ad esempio, molti africani vivessero in Francia, in Germania o in Italia. Diversi camerunensi vivevano a Berlino e così ho voluto ricreare il clima in cui si muovevano, il modo in cui guardavano alla società che li ospitava, che era poi la stessa che stava incubando il nazismo. Infatti, la gran parte di loro non sarebbe sopravvissuta ai lager. Ma la cosa più sorprendente è che alcuni degli africani che si salvarono, devono la loro vita al fatto di aver recitato nei film di propaganda del regime. Il Terzo Reich aveva bisogno di neri per la costruzione del suo mito razziale e per questo furono risparmiati.

Le vicende del romanzo ci sono narrate attraverso il dialogo tra tre donne. Sara, giunta ormai al termine della vita, Bertha, che doveva preparare le spose-bambine del sultano e che rivedrà nella piccola il figlio perduto, Nebu, e una sua omonima che lasciato il Camerun per intraprendere una carriera universitaria negli Stati Uniti fa ritorno nel paese natale per delle ricerche sul nazionalismo locale.
Si tratta di una scelta deliberata. Volevo scrivere una storia che analizzasse l’amore che prova una madre per il proprio figlio e i sentimenti con cui si misura quando lo perde. Per millenni le civiltà si sono edificate sulle guerre, vale a dire mettendo in conto che dei giovani morissero sui campi di battaglia, eppure in nessuna delle lingue che conosco c’è una parola per definire la condizione di una madre che ha perduto un figlio. Anche se si guarda alla storia dell’Africa, ci si accorge subito di quanto comune sia questa dimensione della perdita vissuta dalle madri e prima di loro dalle nonne. Per questa ragione, il dialogo sull’amore che attraversa le pagine di Mont Plaisant, e che racconta questo mondo, non poteva che avere luogo tra donne.

Quando, nel 2007, l’allora presidente francese pronunciò il suo famoso «discorso di Dakar» in cui elogiava il colonialismo ricorrendo anche a degli stereotipi razzisti, lei fu tra gli intellettuali che pubblicarono «L’Afrique répond à Sarkozy», un testo che ne rigettava le tesi. Una risposta che non ha perso di attualità?
Assolutamente no. Sarkozy aveva parlato delle abitudini arcaiche dei contadini africani e io risposi evocando, al contrario, il contributo che hanno dato alla modernità. Tra i vari esempi che citai ce n’era uno che riguarda una condizione che viviamo anche oggi. In molti sembrano, infatti, non ricordare come durante la Seconda guerra mondiale, mentre la Francia era occupata dai nazisti, De Gaulle formò il proprio esercito ricorrendo a dei contadini africani. Quarantamila camerunensi che marciarono nel deserto per raggiungere le zone occupate dagli italiani e dai tedeschi e quindi, traversato il Mediterraneo, liberarono la Francia. Quando parliamo delle migliaia di africani che attraversano oggi il mare per venire a cercare una vita migliore, dovremmo ricordarci anche di quei quarantamila che seguirono allora lo stesso tragitto per liberare l’Europa dal fascismo.