L’allarme è partito da Abdul Qayum Rahimi, governatore della provincia orientale di Herat, al confine con l’Iran: «Se non cominciamo ad agire, temo verrà il giorno in cui non potremo neanche raccogliere i morti». Il coronavirus è arrivato in Afghanistan e preoccupa.

Per ora i casi confermati – anche se non letali – sono 22 secondo Wahidullah Mayar, portavoce del ministero della Salute, ma il numero potrebbe salire presto o essere già più alto. Sono meno di 300 infatti i test effettuati finora nel paese e sei su 34 le province in cui si registrano casi sospetti.

Ieri il presidente Ashraf Ghani, che ha già chiuso scuole e università e vietato eventi sportivi e incontri pubblici di massa, ha rivolto un messaggio televisivo alla nazione: cibo e beni essenziali saranno garantiti, il governo agirà per evitare speculazioni, non preoccupatevi. Un messaggio rassicurante, che non basta. Il sistema sanitario è del tutto deficitario: mancano attrezzature, soldi, esperti, strutture adeguate e accessibili a tutti.

Il lungo confine con l’Iran, il terzo paese al mondo dopo Cina e Italia per numero di contagi, non aiuta. Sono 16.169 i casi registrati in Iran, 988 i morti finora. Secondo il ministro afghano per i Rifugiati, il coronavirus avrebbe già ucciso almeno dieci afghani rientrati recentemente dall’Iran, contagiandone altri.

In Pakistan e in Iran ci sono almeno tre milioni di rifugiati e migranti afghani, senza contare quelli non registrati. I due confini – a oriente e a occidente – sono luoghi di transito ordinario: lavoratori, commercianti, nomadi, militanti, contrabbandieri. Sarebbero circa 15mila gli afghani che ogni giorno rientrano dall’Iran in Afghanistan.

Secondo notizie non confermate, alcuni sono stati rimpatriati nei giorni scorsi anche perché sospettati di essere contagiati. Gli afghani che finiscono nei pochi ospedali disponibili complicano la faccenda: sono almeno 38 i pazienti (di cui un solo positivo) scappati dall’ospedale Shaidahe di Herat, con l’aiuto delle famiglie.

Anche i Talebani sono preoccupati. In alcune aree controllate, hanno organizzato campagne di informazione o assistito il lavoro delle ong, forse anche degli operatori governativi. Altrove, hanno intensificato il monitoraggio dei movimenti: quarantena imposta ad alcuni residenti tornati dall’Iran o da aree «sospette».

Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana che ha Doha il 29 febbraio ha siglato un accordo storico con gli Stati uniti, ha assicurato via Twitter che la commissione Sanità dei Talebani è pronta a cooperare con le organizzazioni sanitarie internazionali. E le ha invitate a occuparsi anche dei detenuti nelle carceri governative. A partire dai membri del movimento.

L’esempio dell’Iran, dove ieri il governo ha annunciato la liberazione momentanea di 85mila detenuti, per qualcuno va replicato per necessità umanitarie, per altri anche come gesto distensivo, preliminare all’avvio del negoziato tra i Talebani e il governo afghano.

Le ong locali e internazionali si rivolgono al governo affinché si occupi dei più vulnerabili: i detenuti, gli almeno tre milioni di tossicodipendenti, i tanti sfollati interni con condizioni igienico-sanitarie e abitudini alimentari peggiori di quelle già precarie della maggioranza della popolazione.

Prime misure anche tra gli «esterni»: dalla missione Nato Resolute Support fanno sapere che in alcune basi militari sono state preparate le quarantene per i soldati da sottoporre al test. Per ora, assicurano, non ci sono contagi. Ma sui social emergono preoccupazioni per i militari delle basi occidentali. Inclusa quella di Herat, che ospita i soldati italiani.