Nei giorni scorsi, prima che i Talebani entrassero nella capitale afghana, la lettera aperta della regista Sahraa Karimi ha circolato sui media e sui social del mondo intero. Insieme all’appello disperato in difesa delle donne, degli artisti, e di tutto quanto è sulla «lista nera» dei cosiddetti studenti coranici, Karimi scriveva: «Ciò a cui ho lavorato con tanta fatica sarà di nuovo distrutto». Il riferimento era all’Afghan Film Center, l’istituzione nazionale per il cinema creata nel 1968, travolta dal precedente regime talebano, e da poco riattivata sotto la sua guida per sostenere il recupero di un patrimonio smarrito, e soprattutto per dare a una futura classe di artisti la possibilità di reinventare il racconto del proprio Paese. Una scommessa questa non da poco se si pensa che intorno all’Afghanistan si è creato un immaginario, nel quale si sono specchiate più generazioni, sospeso tra sogni di mondi fantastici e una guerra che pian piano è divenuta la sua unica iconografia.

NEGLI ANNI Sessanta e Settanta l’Afghanistan era la meta di viaggio non solo degli hippy e degli alternativi che attraversavano una geografia oggi chiusa da confini invalicabili sui pulmini  Volkswagen o in moto tra i Balcani e la Turchia. Qualcuno si perdeva, le storie si tramandavano, ciascuno aveva la sua esperienza, tutto era ancora possibile. Nelle fotografie in bianco e nero dell’epoca si vedono molti occidentali giovani ai mercati pieni di tappeti, o che hanno piantato le tende nei campi; le strade in città rimandano ritratti di ragazze afghane sorridenti con sandali e minigonne alla moda accanto a figure antiche, coppie con le spider e ragazzi a cavallo in costume tradizionale, la borghesia cittadina e la cultura rurale. Quell’Afghanistan era «la promessa di un altro mondo» – come scriveva Alighiero Boetti che vi ha trascorso molta della sua vita e dedicato la propria arte, e lì avrebbe voluto che le sue ceneri venissero sparse – ma la cosa non fu possibile.

«Afghanistan sai è così lontano e il paradiso non è mai sotto mano» (Eugenio Finardi, Afghanistan). E se Radio Kabul è «Storpie atmosfere terse e sterili bazar» (Cccp, Socialismo e barbarie, 1987), quell’emittente «mitica» è davvero esistita, primo segno nel Paese di una scrittura della propria storia, voluta nel 1925 da Amanullah Khan, il re che aveva conquistato l’indipendenza dagli inglesi, e distrutta nel 1929 quando era stato deposto.
Il punto è questo: a fronte di un immaginario «esterno» cosa ha narrato di sé l’Afghanistan? Molto ci dice la musica, meno le immagini, che nel tempo si sono «confuse» con quelle delle «news» e hanno assunto l’identità della guerra e della sua narrazione. Un conflitto infinito, feroce, che va dall’invasione sovietica ai mujaheddin, dai Talebani barbuti e iconoclasti ai guerrieri che li hanno combattuti come Massoud, ucciso nel 2001, e divenuto forse suo malgrado un’icona quasi pop – persino la stilista francese agnés b. in quegli anni aveva rivisitato il cappello di lana dei mujaheddin (un must pure se importabile visto il pizzicore che provocava sulla fronte), il ricavato delle vendite andava a sostegno della loro resistenza. E dopo?

Nel 2001, durante il regime talebano, Mohsen Makhmalbaf gira Viaggio a Kandahar (2001) tra Iran e Afghanistan (clandestinamente), il viaggio di una giovane donna giornalista afghana emigrata in Canada che torna nel Paese alla ricerca della sorella.
Sahraa Karimi nel suo film Hava, Maryam, Ayesha – nel 2019 agli Orizzonti della Mostra di Venezia – si confrontava con la condizione delle donne in un patriarcato che domina a ogni livello sociale. La stessa violenza che si ritrova in Roqaia, la cui protagonista, una ragazzina di dodici anni sopravvissuta a un attentato, è condannata alla solitudine. Anche qui l’autrice è una donna, Diana Saqeb, la sua famiglia è emigrata in Canada dove lei è rimasta negli ultimi mesi a causa delle restrizioni di viaggio imposte dalla pandemia. Doveva tornare a Kabul per le riprese del suo nuovo progetto, un documentario sulle donne in una zona rurale al confine con l’Iran: «Il mio solo pensiero adesso è che siamo fottuti» ha dichiarato ieri a «Variety».
Karimi che si è rifugiata a Kiev aveva un nuovo film in preparazione, una commedia, ora sospeso come altri ventidue progetti, tra cui tre di cineaste. Così le sale, che erano state recuperate temono di sparire di nuovo, i Talebani le avevano chiuse e distrutte, mentre – è voce unanime di tutte le registe – la libertà di espressione con loro è impossibile.

 

UFFICIALMENTE il cinema afghano inizia nel 1970 che le storiografie datano come l’anno del primo film di finzione, Rozgaran (Il Tempo), tre storie di amori, matrimoni di interesse, bande di ladri. Prodotto dall’Afghan Film Center, è stato certamente il primo tentativo di avviare un’industria che nel Paese mancava obbligando i registi a appoggiarsi all’esperienza dei tecnici indiani, anche se c’erano già stati dei segnali in questo senso grazie al lavoro di un piccolo laboratorio di Kabul che produceva newsreel e documentari.
Se si guardano un po’ gli esempi venire, il cinema finisce sempre per diventare il terreno (e lo specchio) della politica – pure nella sua cancellazione. L’immagine che illustra questo articolo  è quella di Baba (1989), presentato nella versione restaurata alla Berlinale 2019; il regista, Juwansher Haidary, direttore dell’Associazione dei registi afghani, si era ispirato al progetto di riconciliazione coi mujaheddin voluto dal presidente comunista Najibullah. A queste tensioni allude infatti la vicenda dei due villaggi nemici, la cui riconciliazione viene resa possibile da un anziano eremita. Dieci anni prima, nel 1978, la Rivoluzione di Saur determina un incremento della produzione cinematografica vista come un importante strumento di educazione contro l’analfabetismo – tra i titoli, Soldier Saboor (1985); Love Epic (1989).

PER TROVARE le origini del cinema in Afghanistan si deveperò tornare a Radio Kabul: è infatti ancora re Amanullah a portare la prima troupe cinematografica nel Paese, e gli archivi con quei materiali, salvati dopo la sua fuga, saranno trent’anni dopo un’eredità preziosa per i nuovi filmmaker, in particolare per le unità create sotto la supervisione di Akbar Shalizi nel 1959. Secondo diversi studiosi afghani l’opera di riferimento nell’immaginario nazionale è un film del 1964, Like Eagles, diretto da Fayz Mohammad Kheirzadah, che era anche alla guida delle Belle Arti, e aveva collaborato qui con l’unità cinematografica del ministero dell’informazione – da cui nascerà l’Afghan Film center.

PERCHÉ questo film è così importante? Nel bianco e nero che ricorda il neorealismo italiano simbolicamente scuote molte certezze a cominciare dalla scelta del personaggio protagonista, una ragazzina, che fugge dal villaggio per assistere alle celebrazioni del giorno dell’indipendenza a Kabul. Shahla, questo il suo nome, si confida nelle prime scene con la sua bambola e inizia poi il suo viaggio, scendendo dalla montagna sulla strada asfaltata – lo hanno sicuramente visto registi come Kiarostami. Quando tornerà a casa dirà alla madre che ormai è «una donna adulta». Like Eagles – che è stato mostrato qualche anno fa insieme a altri classici afghani al festival coerano di Busan – unisce documentario e finzione: nelle immagini di archivio che accompagnano i passi della ragazzina si vedono le danze, le parate militari, i concerti della festa, mentre i suoi incontri e le sue scoperte sono la finzione. L’Afghanistan si rivela negli occhi di una bambina, il suo presente e il suo futuro. Da qualche parte questo sguardo continuerà a essere raccolto.