Barriera su barriera. Lo sguardo che sbatte contro il reticolato fitto di stoffa del burqa e ancora contro quello metallico della grata del furgoncino che le traduce in carcere. Al campo, prigione di Takhar, Afghanistan, le aspettano le altre: tra casupole e stanze condivise, un cortile pullulante di figli scalzi, di fili intrecciati di panni stesi, di bacinelle per lavare, una sezione femminile (40 unità), una maschile (500). Eppure questa soggettiva obsoleta e costringente, confine fra il nulla e il deserto, può essere percepita paradossalmente come oasi di libertà e di quiete (dove è persino possibile liberarsi del burqa), in...
Visioni
L’Afghanistan delle donne è chiuso dietro le sbarre
Incontri. «No burqas behind bars», Nima Sarvestani regista iraniano residente in Svezia, racconta il suo film