Barriera su barriera. Lo sguardo che sbatte contro il reticolato fitto di stoffa del burqa e ancora contro quello metallico della grata del furgoncino che le traduce in carcere. Al campo, prigione di Takhar, Afghanistan, le aspettano le altre: tra casupole e stanze condivise, un cortile pullulante di figli scalzi, di fili intrecciati di panni stesi, di bacinelle per lavare, una sezione femminile (40 unità), una maschile (500). Eppure questa soggettiva obsoleta e costringente, confine fra il nulla e il deserto, può essere percepita paradossalmente come oasi di libertà e di quiete (dove è persino possibile liberarsi del burqa), in un Paese in cui se una donna fugge di casa per sottrarsi a un matrimonio forzato e/o a un marito violento, la legge, invece di supportarla, la considera colpevole di «crimine morale», punibile con pene fino a 15-16 anni.

In questi meandri devastati di realtà si è inoltrato Nima Sarvestani, regista iraniano residente in Svezia che ha accolto le storie di Sima e Najibeh, entrambe spose a soli dieci anni (il marito violento della prima continua a picchiarla durante le visite in carcere, la seconda lotta per non essere costretta a vendere il figlio, cui riesce a stento a procurare il latte), o di Sara, la presenza più consapevole – talvolta narratrice dei tracciati delle altre – che ha rifiutato un matrimonio combinato ed è fuggita con un uomo ora recluso nella sezione accanto, ma che pure non riesce a immaginarsi un futuro al di là della speranza che lui la sposi e la sottragga all’ira dei suoi, pronti a ucciderla. Tra spirali di filo spinato e frammenti di cielo, No burqas behind bars le segue nella loro battaglia quotidiana.

«Sono di origini iraniane. Il mio paese e l’Afghanistan hanno molte affinità, non solo linguistiche. Così seguo da tempo quanto avviene lì, sin da quando il potere era nelle mani dei talebani» racconta Nima Sarvestani.

Infatti non è la prima volta che gira in Afghanistan.

Nel 2008, a Mazare-Sharif, ho realizzato un altro documentario in una Safe House, un luogo dove le donne che fuggono dalla violenza trovano rifugio. È stato il primo contatto, due anni di lavoro che mi hanno fatto comprendere come coloro che riescono ad avere accesso a queste case siano le più fortunate, perché molte vengono arrestate prima che ciò avvenga. Da questa esperienza si è fatto strada il desiderio di continuare a indagare i «crimini morali» e le loro conseguenze, ed è nato questo film nel carcere di Takhar.

Deve essere stato arduo ottenere i permessi per girare in prigione.

Maledettamente difficile! Ci sono stati sei mesi di trattative dalla Svezia; e dal momento che avevamo già lavorato in Afghanistan siamo riusciti ad averli. Mentre giravamo però ci siamo scontrati ogni giorno con chi voleva fermare le riprese. Come il direttore della prigione, che temeva che le donne rivelassero che era molto duro con loro. Infatti, dopo cinque settimane, sia

mo stati costretti ad andar via. Fortunatamente, la volta successiva, abbiamo scoperto che il direttore era cambiato (lo stesso uomo del film, che sottolinea come i matrimoni forzati siano l’esito di trent’anni di guerra, di carenze educative e dell’ignoranza, ndr). È stato molto gentile, ha capito quanto fosse importante andare avanti per il futuro di quelle donne.

Insostenibile è che sia lo Stato a costruire intorno a loro un orizzonte legalizzato di oppressione.

La Shari’a, la legge che vige in Afghanistan, come sappiamo, è atrocemente conservatrice e patriarcale, oltreché portatrice di una religiosità oscurantista. Senza contare la grandissima corruzione nel Paese, a svantaggio dei diritti umani. Certo, ci sono stati cambiamenti positivi con la caduta del regime dei talebani, ma quanto concerne le donne, molte concezioni e leggi sono ancora aberranti. Oggi l’unica via d’uscita sono le Safe House, però in numero insufficiente rispetto al fenomeno.

Vedendo il film, emerge come sia fondamentale la sua dimensione di denuncia in ambito internazionale. E si spera che questa esperienza abbia inciso sulla vita di queste donne, che siate stati in grado di aiutarle. Soprattutto penso a Sara, sempre più consapevole.

Sì, Sara era pronta. Nel finale, al rilascio, l’abbiamo lasciata con sollievo al Women’s Center. Ma anche lì l’unico modo che le offrivano per sfuggire al «destino» di tornare dai suoi, era di sposare un uomo anziano con due mogli, cosa cui si è opposta. A questo punto le restava solo l’incubo: il confronto con la sua famiglia (che poi era quella degli zii, avendo lei perso sia il padre nella guerra con l’Unione Sovietica, sia la madre). Tornando da loro, la sua vita era in totale pericolo e noi lo sapevamo. Infatti il villaggio ha cominciato a pressare i familiari perché la uccidessero e i suoi cugini l’hanno segregata. Lei però aveva un cellulare che io le avevo dato al rilascio. Mi ha chiamato. Così ho avvisato il direttore della prigione, che ha agito. A quel punto è stata mandata in una Safe House e nel frattempo noi l’abbiamo invitata alla prima del film, un anno fa. Allora ha ottenuto il visto. Non è più tornata in Afghanistan e ha chiesto asilo in Svezia. Non si può dire quanto la sua vita sia cambiata.