Il crollo si vede soprattutto nella grandi città. L’affluenza alle urne è calata ovunque, ma è precipitata nei sei capoluoghi di regione dove si è fermata dappertutto, tranne che a Bologna, sotto il 50%. E così solo una minoranza degli elettori aventi diritto è andata a votare a Roma (48,83%), a Milano (47,69%), a Napoli (47,19%), a Torino dove c’è stato il calo più netto rispetto al 2016, di quasi dieci punti percentuali (48,06% di elettori alle urne), a Trieste che è la città con l’affluenza più bassa (46,02%) mentre a Bologna va a votare il 51,16%. Se la media nazionale dell’affluenza alle comunali è stata del 54,69%, che significa un calo del 6,9% rispetto al 2016 (quando si votò in una sola giornata), nelle grandi città l’affluenza media si è inabissata fino al 48,15% con un calo rispetto alle precedenti comunali di otto punti netti. Per tutti i capoluogo di regione si tratta del dato peggiore di sempre. Il paragone con le comunali di cinque anni fa è negativo, quello con le elezioni di dieci anni fa è drammatico: a Milano e a Bologna si è perso per strada il 20% degli elettori.

Non c’è stato un calo dell’affluenza nelle elezioni regionali calabresi: bassa era (43,7% nel gennaio 2020) e bassa è rimasta (44,3%). Il che conferma l’impressione che il fenomeno dell’astensionismo abbia trovato nelle grandi città motivazioni aggiuntive. La sfida nei sei capoluoghi di regione era una partita nella partita. Da sole Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e Trieste hanno impegnato circa il 45% degli elettori chiamati alle urne (5,3 milioni su 12,1). E proprio lì dove il voto di opinione è tradizionalmente più forte si è registrato il calo maggiore della partecipazione. Bisogna cercare allora motivazioni aggiuntive per spiegare il non voto nei centri urbani, oltre a quelle valide ovunque, che siano storiche o più recenti (queste ultime probabilmente legate alla paura e alla rabbia cresciute con la pandemia). È assai probabile che questa astensione aggiuntiva urbana sia l’effetto del non voto per le liste che alla fine sono risultate più penalizzate e per i candidati sconfitti. Un’astensione politicamente motivata che (in attesa dei voti assoluti e definitivi) dovrebbe aver colpito soprattutto i 5 Stelle – che in passato proprio dall’astensione avevano pescato – e i partiti del centrodestra puniti per candidati deboli (a Milano e a Bologna) o che hanno perso per strada alcune liste a sostegno (Napoli).

Il ritardo nello spoglio consente solo analisi sulle percentuali, rinviando a domani quello sui voti assoluti. A Roma i dati arrivano con più lentezza e la capitale è anche l’unica tra le sei città più grandi dove il Pd non risulta il primo partito, fermandosi un punto e mezzo sotto Fratelli d’Italia (16,3% contro 17,8%). Altrove lo spoglio è più avanti. A Milano nella scia del successo di Sala (che è cresciuto di 15 punti rispetto al 2016 quando fu costretto al secondo turno) guadagna anche il Pd, circa cinque punti percentuali (33,53%). Nel centrodestra tracolla Forza Italia, passando dal 20% al 7% e questo spiega quasi per intero il ridimensionamento del candidato sindaco (Bernardo 8 punti più in basso di Parisi nel 2016). Invece la Lega resta stabile e Fratelli d’Italia quasi quadruplica la percentuale (dal 2,4% al 9,9%). Anche a Milano il consenso dei 5 Stelle si riduce a meno di un terzo di quello che era (adesso il 2,99%).
Identico ridimensionamento il partito di Conte patisce a Torino, dove aveva la guida della città: è fermo adesso all’8,5% rispetto al 30% del 2016. E anche a Torino il Pd è il primo partito, perdendo poco in termini percentuali (dal 29 al 28). Nel centrodestra il raffronto con le elezioni precedenti è comunque positivo, dal momento che nel 2016 in quell’area c’erano tre candidati: cresce la Lega (dal 5,7% al 16%), si espande enormemente Fd’I (dall’1,5% al 10,7%) e migliora di qualche decimo persino Forza Italia (ora al 5,2%).

A Napoli il Pd si avvia a tornare il primo partito della città con il 12,8% (aveva l’11,6% quando nel 2016 consegnò la testa alla lista di De Magistris). I democratici vincono la sfida con i 5 Stelle che pure in città (come testimonia la corsa ai festeggiamenti dei leader nazionali) fanno segnare l’unico segno positivo: avevano il 9,6% e adesso hanno il 10,8%. La Lega era assente cinque anni fa ed è rimasta fuori anche questa volta per un ritardo nella presentazione della lista. Fratelli d’Italia che cinque anni fa correva divisa dal centrodestra più che raddoppia i voti, restando però su percentuali assai più basse della media nazionale (dal 1,28% del 2016 al 4,36% di ieri sera). Forza Italia perde molto(dal 9.6% al 6,6%) ma non tracolla, lasciando comunque percentuali basse alle tante sigle locali del “civico” Maresca.

A Bologna dove lo spoglio è più avanti e quando scriviamo è arrivato all’85% delle sezioni, il Pd resta naturalmente il primo partito incrementando anche un po’ la percentuale (dal 35,4% al 36,6%) e accompagnando così lo straordinario successo di Lepore che è l’unico sindaco di Bologna a essere eletto con oltre il 60% al primo turno da quando esiste l’elezione diretta. Seconda lista in città Fratelli d’Italia che moltiplica per cinque la percentuale del 2016 (adesso è al 12,6%). Perde due punti e mezzo la Lega (ora al 7,8%) e qualcosa di più Forza Italia (ora al 3,7%). Gigantesca la flessione dei 5 Stelle che devono dividere per cinque la percentuale del 2016, si fermano adesso al 3,37% e da seconda lista di Bologna finiscono al nono posto.

Infine, anche a Trieste il Pd esce dalle urne come primo partito della città, con il 16,1% rispetto al 13,7% di cinque anni fa. Ma Fratelli d’Italia incalza da vicino, essendo passata da 3,2% al 15,9%. Cresce anche la Lega (dal 7,3% al 10,6%) e Forza Italia tutto sommato contiene le perdite (da 10,8% a 8,6%). Invece i 5 Stelle fanno segnare a Trieste un ridimensionamento clamoroso, passando dal 13,1% al 3,5% (quasi un quarto della percentuale precedente).