Come ci ha riferito il ricercatore dell’Università della Calabria, Matteo Olivieri: «Nell’estate scorsa si è assistito a fenomeni anomali, come i 9.000 incendi registrati dalla sala operativa di Calabria Verde di cui ben 217 hanno riguardato superfici maggiori di 30 ettari. Gli incendi hanno coinvolto 8 Siti di Importanza Comunitaria, 5 Zone di Protezione Speciale, 4 Parchi nazionali o Aree protette. La Calabria, che è tra le regioni con la più alta superficie forestale (612.931 ettari), e vanta un indice di boscosità tra i più elevati d’Italia (41%), è anche tra le regioni che hanno perso la maggior quantità di patrimonio boschivo. In totale, risultano andati distrutti 33 mila ettari di territorio». Se uno sovrappone questi dati alle carte dell’inchiesta Stige della Dda di Catanzaro, che nei giorni scorsi ha smantellato la cosca Farao Marincola e i suoi tanti addentellati nella politica e nelle istituzioni, ha contezza del fatto che l’intera filiera del legno della Sila era controllata dalle cosche: dal taglio alle centrali a biomassa, dalle mazzette alle guardie del Corpo forestale alla connivenza di esponenti di enti pubblici, amministratori e forze di polizia, dalle aste boschive all’attività dei piromani. Il tutto siglato da un patto di ferro tra clan cosentini e crotonesi. In pochi anni, l’altipiano è così divenuto zona franca, controllata dai cirotani. E anche le anomalie degli incendi estivi si spiegano con questo «affare dei boschi».

I clan si affidano ai pastori che conoscono le strade e i sentieri impervi della Sila. Sono uomini che hanno piena padronanza delle aree più disagiate, in cui più volte hanno curato il rifugio dei latitanti, primi fra tutti il boss Cataldo Marincola e il capo-bastone Silvio Farao. Sono proprio loro ad affidare il controllo mafioso delle aste boschive del territorio, fra le provincie di Cosenza e Crotone, a Vincenzo Santoro, detto ‘u monacu, un uomo delle montagne, che a ogni stagione pratica la transumanza portando le mandrie dai pascoli collinari a quelli montani. Per far fronte ai desiderata del boss, Santoro crea un vero e proprio «cartello» di imprese che possono contare sulla compiacenza, «se non sulla collusione», scrivono i magistrati, di esponenti del Corpo forestale. Il cartello era in grado di determinare l’aggiudicazione delle gare d’appalto indette dagli enti proprietari dei terreni boschivi ad un prezzo di poco superiore alla base d’asta. Essendo i bandi di gara ad offerta a rialzo, la ‘ndrangheta esercitava le necessarie pressioni sulle ditte interessate all’appalto affinché lo stesso venisse aggiudicato «ad un prezzo inferiore rispetto al reale valore del legname che poteva essere ricavato». La differenza tra il prezzo pagato dalla ditta per aggiudicarsi l’appalto e il valore reale del legname estratto provocava «un surplus di utili, distribuito per metà nella bacinella (la cassa comune) della ‘ndrina del comune dove si svolgeva l’appalto e l’altra metà nella bacinella del locale di Cirò».

Un controllo così spudorato del territorio silano non poteva avvenire senza la connivenza dei forestali. Le ditte non avevano solo la capacità di aggiudicarsi gli appalti ma, nel corso dell’esecuzione dei lavori, effettuavano tagli abusivi di ulteriori piante, oltre a quelle previste. Tagli abusivi sui quali la criminalità pretendeva una percentuale. E chi non si allineava subiva minacce e danneggiamenti. E anche gli incendi, per i quali bandi pubblici prevedono incentivi per il rimboschimento, erano aizzati dalle ‘ndrine.

In Calabria ben cinque bandi sanciscono la concessione di finanziamenti per «l’imboschimento e creazione di aree boscate», per la «prevenzione dei danni da incendi e calamità naturali», per il «ripristino delle foreste danneggiate», per gli «investimenti diretti ad accrescere il pregio ambientale degli ecosistemi forestali», nonché per gli «interventi in tecnologie forestali, trasformazione, mobilitazione e commercializzazione prodotti forestali».

Anche nell’azione dei piromani ci sarebbe, dunque, un movente economico. Come del resto sull’esecuzione dei lavori boschivi per il cui business, si legge nelle pieghe degli atti, si sarebbe siglato un patto tra i clan del crotonese e le ‘ndrine del cosentino. Da allora, tanto le attività di taglio che quella di rimboschimento sono divenuti merce di spartizione illecita. E la Sila è sempre più cosa loro.