Con J’accuse di Roman Polanski entriamo fin dalla prima scena nel regno della perfezione: non si tratta certo di essere portati per mano come farebbe il racconto tradizionale di un celebre caso giudiziario, o di un film storico, perché non si avvertirebbero i brividi inquietanti della contemporaneità come in questo film. Siamo nella perfezione dell’universo cinematografico fin da quando percorriamo la piazza d’armi nella sua immensa spettacolarità dove il capitano Alfred Dreyfus, tra i pochi ebrei presenti nell’esercito francese, nel 1894 sarà degradato e condannato per alto tradimento accusato con prove false di aver fatto pervenire informazioni militari alla Germania.

«HA LA FACCIA di un sarto ebreo che piange per l’oro che non ha più» sussurra un ufficiale quando gli vengono tolti i gradi, e un altro commenta : «I romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli ebrei» e gli viene risposto: «è il progresso». Dreyfus è interpretato da Louis Garrel che ha qui modi austeri nella sua ricerca dell’onore perduto da riconquistare e, imprigionato su uno scoglio sperduto, sull’isola del Diavolo, farà la sua ricomparsa nel film solo quando il processo sarà riaperto.
L’Affare Dreyfus scosse la Francia fino a cambiarne i connotati, fu considerato la prima scintilla che produsse in seguito Auschwitz, per aver alimentato violentemente l’antisemitismo, o meglio aver portato alla luce l’antisemitismo radicato nella società (Eugenio Renzi ne ha scritto sul manifesto del 27 agosto, affrontando in profondità tutti gli elementi storici e le ricadute del celebre caso).

IL FILM PROCEDE con precisione cronologica in un Ottocento di cui sarebbe interessante scoprire i dettagli tecnici della ricostruzione poiché Polanski, grande regista è anche innovatore di tecnologie in ogni suo nuovo film, totale immersione nel secolo scorso senza le sottolineature, le citazioni compiaciute, l’effetto illustrazione d’epoca. Passano veloci figurine di Seurat, di Monet, Renoir, Toulouse-Lautrec, ma tutta la sensualità delle donne dell’epoca è espressa dalla sola presenza di Emmanuelle Seigner. Nel film non ci sarebbe neanche il tempo di soffermarsi sui dettagli poiché è tenuto saldamente in pugno dalle azioni del colonnello Georges Piquard (Jean Dujardin di The Artist) fin dal momento in cui è nominato nuovo capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore. Lui diventa la coscienza della sua epoca e anche della nostra, funzionario che non si lascia intimorire dalle alte sfere, non accetta, benché militare, il principio dell’obbedienza agli ordini quando siano sbagliati: «Potete cambiare la procedura, non i fatti» mentre al contrario l’opinione dell’ufficiale subalterno prono al servizio e che «Bisogna eseguire gli ordini, decidono i capi, del resto me ne frego se è innocente» . Piquard agisce con cautela e precisione, prende l’iniziativa di denunciare l’errore giudiziario quando ha tutte le prove in mano, nonostante i depistaggi. Non solo in Italia c’è esperienza di servizi segreti deviati: nel film vediamo la guerra in atto tra ordine costituito e verità, concetto giuridicamente irrilevante, ma non moralmente.
Se J’accuse richiama in qualche modo fin dal titolo le stesse drammatiche esperienze del regista con la giustizia, il senso di costante persecuzione, indica con precisione il pericolo sempre incombente del razzismo. L’elemento di humour nero che caratterizza il cinema di Polanski lo possiamo cogliere questa volta nei confronti della tecnica di investigazione dell’epoca, a base di lenti di ingrandimento, esperti cialtroni, lettere private trafugate e aperte col vapore, confronti di scrittura ad occhio nudo, soprattutto perché mette in evidenza certi metodi vetusti che ancora resistono nella giustizia contemporanea, i comportamenti rimasti inalterati. Il mondo descritto sarà anche antico, ma nei palazzi sembrano succedere le stesse cose.

IL TITOLO del film J’accuse è la citazione dell’articolo che Zola scrisse su L’Aurore in difesa di Dreyfus, quando venne a conoscenza delle false accuse («una delle peggiori iniquità del secolo»), attaccando una per una tutte le gerarchie distinte del potere, e per questo si fece anche un anno di carcere per diffamazione a mezzo stampa (e Meliès già nel 1889 realizzò L’Affaire Dreyfus). Poi cadde il governo come aveva previsto. È un momento durissimo del racconto che svela ancora una volta come il realismo puntiglioso di Polanski sottintenda la sua poetica che dopo un inizio giocoso, è diventata via via acidula, turbolenta, ma in questo caso, come nei suoi ultimi film, fiammeggiante, minacciosa, una poetica di estremo rigore politico.