La fama di Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk è basata principalmente sulla censura che ne fece la Pravda nel 1936, a due anni dal debutto, quando servì da pretesto per fare i conti con tutta l’avanguardia sovietica, che ne uscì fracassata, su precise indicazioni di Stalin, il quale aveva visto l’opera pochi giorni prima. Assistendo alla rappresentazione del San Carlo non possiamo dar torto al “piccolo padre”: la messa in scena del desiderio sessuale come segnale di libertà e di messa in discussione dell’ordine costituito è così esplicita e perspicua da far temere che le masse che avevano acclamato l’opera ne avrebbero presto tratto le somme riguardo alla propria esistenza.

La profondità con cui il direttore Juraj Valčuha – premio Abbiati nel 2017 – scava nell’opera e la controllatissima, impeccabile tempesta orchestrale, grazie a una compagine in stato di grazia, in cui immerge il destino della protagonista incatena lo spettatore alla poltrona: Katerina e Sergej, Elena Mikhailenko e Ladislav Elgr, vivono a loro storia complessa attraverso inganni e omicidi, fino a una tragica conclusione. Ma, in un certo senso, ciascuna scena dell’opera è già di per sé un dramma compiuto, dalla festa contadina che, in un furioso galop, si trasforma in un sabba violento, alla scena del coito tra i due amanti in cui gli ottoni (veri segnatari del destino) sembrano calpestare ogni illusione di felicità avvolgendoli in una tempesta sonora quasi insostenibile.

Lady Macbeth è la creazione di un artista che non crede nella redenzione, nonostante la tenerezza con cui avvolge l’inno di Katerina alla spontaneità del desiderio sensuale, e scompagina ad ogni passo la propria creazione avvolgendola in una rete di sonorità cupe e lancinanti, che irridono ogni speranza di riuscire a sfuggire alla tragicità dell’esistenza attraverso l’amore.