A dispetto del titolo romantico, sia nella versione italiana che in quella originale (Appuntamento in una stazione del sud) si tratta di un efferato gangster film che potrebbe avere un ulteriore titolo alternativo come «ladri di motociclette», titolo neanche troppo lontano dalle intenzioni del regista che ha il neorealismo tra i suoi punti di riferimento.

I CANONICI due protagonisti, lui e lei, riempiono di angoscia lo schermo con la loro presenza disperata ma contenuta, lui un capobanda, lei una semplice pedina, belli e offuscati dalla vita, veri protagonisti da noir. In concorso a Cannes 2019, Il lago delle oche selvatiche è il quarto film del regista cinese Diao Yinan, classe 1969, diplomato in letteratura, appartenente alla «sesta generazione» come Jia Zhangke, Orso d’oro a Berlino nel 2014 con il poliziesco Fuochi d’artificio in pieno giorno uno dei suoi film a testimonianza della violenza sociale del paese.

Dopo essersi già cimentato con divise da poliziotto, guardie carcerarie, stazioni ferroviarie, amori impossibili, sempre con grande successo di pubblico, ha intrecciato il genere con il suo stile autoriale e i due protagonisti come motore dell’azione: potrebbero andare avanti a lungo nel silenzio e sotto la pioggia – il cinema d’autore orientale sollecita l’immaginazione sui tempi lunghi – non fosse che il regista si è sempre detto affascinato dai silenzi di Michelangelo Antonioni e che il racconto poetico incrocia il film di genere, la pura azione, sorprendente anch’essa perché costruita in maniera inaspettata, spesso ironica, appagante nella sua geometria compositiva, nell’uso del colore abbagliante.

ZHOU ZENONG (Hu Ge) è un capobanda che si trova braccato dalla polizia per aver ucciso un poliziotto con un colpo sparato accidentalmente, la ragazza Liu Aiai (Gwen Lun Mei), prostituta del lago, è mandata dalla banda a incontrarlo al posto della moglie che non ha nessuna intenzione di rivederlo, dopo che per cinque anni non si è fatto vivo. Lo schema sociale si mostra attraverso la griglia del gangster movie, con scoppi di violenza improvvisa e notazioni di evidente umorismo. In parallelo si sviluppano le contrapposte assemblee di vari gruppi sociali, ma con le stesse modalità: le bande di ladri di motociclette che hanno affittato un hotel intero per la loro convention, bande ben organizzate ma troppo litigiose e pronte ad esplodere spezzando la routine assembleare. Speculari si mostrano poi gli incontri dei poliziotti con interventi altrettanto assembleari ad alzata di mano e, a sorpresa perfino quelli degli operai delle fabbriche dove si adopera il sistema del sorteggio per licenziare gli elementi in esubero.

FILM di una fuga ad andamento morbido e insieme feroce, con invenzioni sceniche ora erotiche come lo schieramento delle bagnanti prostitute, ora inaspettate come il ballo di gruppo scandito dalla melodia di una canzone tedesca, ma sempre di puro impatto visivo: come l’uso del color fucsia delle luci e dell’abito di lei, prostituta a tempo pieno, un colore che, se ricordiamo bene, indica in certi paesi orientali solo le fanciulle in fiore. Per cambiarsi poco dopo in rosso sangue, tra un accendersi fosforescente di tomaie delle suole dei ballerini, tra veli di plastica dei chioschi che si prestano a diventare misteriosi scenari. E perfino con l’accenno di un circo, sapientemente non esplorato dal regista a fondo, solo accennato attraverso una donna fiore e specchi deformanti in cui nessuno di specchia, a rendere il tutto ancora più inquietante, limitrofo a condomini alveari e alle squallide mense. Tutto girato perlopiù in notturna, nella regione detta dei cento laghi, l’ormai famosa Wuhan.