Come previsto, il timore di troppa vicinanza carnale sui mezzi sta spingendo sempre più persone a rispolverare la bicicletta da anni chiusa in cantina o a comprarne una nuova. Da una parte gioisco, dall’altra vedo profilarsi sfracelli. In attesa che i sindaci realizzino piste ciclabili diffuse, ovvero dal centro alle periferie, fra una periferia e l’altra, senza buche né pavet sconnessi, non a ridosso di una rotaia di tram, non interrotte da un muro o da un senso vietato, resta il problema del parcheggio del velocipede. Essendo la bici uno degli oggetti più desiderati dai ladri, chi vuole tenersela cara, e non usa il bike sharing, ha sperimentato svariati metodi antifurto.

Per esperienza personale posso dire che il più affidabile è il bloster che però ha un problema: essendo un archetto rigido, devi trovare un palo, un’inferriata, insomma qualcosa di fisso e nello stesso tempo circondabile a cui attaccare la bici per la ruota posteriore o il telaio, le uniche parti non o difficilmente asportabili. Se la nascente passione collettiva resisterà e aumenterà, prevedo lotte fratricide per accaparrarsi l’asta di un cartello stradale, liti con i proprietari di cancelli, contenziosi con chi ha legato la sua bici sopra la tua. Se poi uno deve lasciarla sotto casa tutta la notte, al parcheggio vagante si aggiunge l’ansia di alzarsi e trovare la bici senza una ruota, il sellino, i pedali, quando va bene. È per questo che sempre più persone si sono rassegnate a portarla a spalla su per le scale tenendola nell’ingresso, sul balcone o in cantina.

Se non si vuole ridurre mezza popolazione dipendente da fisioterapisti od osteopati, si potrebbe recuperare l’antica e gloriosa tradizione dei parcheggi collettivi per bici. Una volta ce n’era uno in ogni stazione dei treni, soprattutto nelle regioni con tanta pianura e dove andare in bicicletta è una religione. Arrivavi, consegnavi la bici al custode, la appendevi agli appositi ganci e la sera tornavi sicuro di trovarla intera.

Poiché in città molti cortili sono impraticabili causa spazi ristretti o condòmini che preferiscono far largo al pattume piuttosto che a una due ruote, non sarebbe una cattiva idea progettare in ogni quartiere, oltre alle piste ciclabili, anche dei ricoveri pubblici per biciclette. Lo spazio non manca. Basta volerlo trovare. Si eviterebbero così scene imbarazzanti come quella che mi capitò a Milano alcuni anni fa.

Avevo legato la bici all’asta di un cartello stradale e una sera, rientrando a ora tarda, la vidi legata a un’altra bicicletta con un cavetto di acciaio. Sembrava un gesto intenzionale per bloccare la mia bici e così avere tempo di far saltare il bloster. Decisi di liberarla anche se erano le due di notte. Salii in casa, presi pinze e forbici, scesi e cominciai a tagliare il cavetto filo per filo. Sembravo io la ladra, ma non mi importava, anzi: se qualcuno avesse osato dirmi qualcosa lo avrei azzannato. I fili resistevano, la mia pinza faticava. Passarono due addetti alla pulizia delle strade con un camioncino, li chiamai, mi guardarono perplessi, chiesi loro se avevano un attrezzo tranciante più efficace del mio, scossero il capo, gli chiesi se potevano tagliare loro, che erano molto più forti di me, gli ultimi fili. Tentennarono, giustamente. Non avevano nessuna voglia di essere scambiati per complici di una pseudo ladra di biciclette. Vedendo la mia costernazione cedettero e la mia bici fu libera. «Se passate qui di giorno vi offro un caffè», dissi. «Facciamo il turno di notte», risposero filando via il più in fretta possibile.

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