Dietro il pome Caulaincourt hanno inizio delle terre abbandonate, delimitate da stamberghe, l’agglomerato è selvaggio, le case disgiunte e imbiancate in fretta. Talvolta, la strada, interrotta da buche, si infila tra le casupole. I cabaret sono capanne di rami saldati con la terra secca. C’è poi una bettola vetrata su tre facciate, dove le lastre distrutte a colpi di pugni sono rattoppate con la carta. Il bancone è vuoto, e sul muro nudo compare solo la legge Giffre. Le bottiglie sono nel retrobottega. Quando entra qualcuno, salta fuori il proprietario con la pistola in pugno. Con una mano versa da bere, con l’altra impugna una pistola per farti cacciar fuori le monete. I malviventi si servono al bancone, illuminati da una candela. Si sente solo la pioggia che batte sui vetri, il vento che preme le pareti di legno, e a volte un vetro di carta che scoppia.

 

26clt1fotinal

In inverno, i giocatori delle tre carte emigrano là. Depongono l’abito e il cappello di seta e indossano maglione e berretto. La vita è troppo cara a Parigi senza le partite. Perché il gioco funzioni, ci vuole il sole, le file di inglesi con i cappelli tondi e le giacche in tweed, i vagoni pieni di volti attoniti, e un buon treno che non si ferma mai, fino a Chantilly. Ma quando la città si accende, a novembre, dicembre, appare il giocatore delle tre carte. Il gioco si pratica qua e là, a ogni angolo del marciapiede. Quando infine l’inverno diventa insopportabile, la folla, non si ferma più, le tre carte se ne volano, il giocatore delle tre carte tira via il suo gioco, fischietta, raccoglie una paglia e l’accende. E poi risale la collina, andando anche lui in campagna. Ma d’inverno è fregato, e ridiscende in città lungo boulevard Rochechouart. Passa la notte da qualche parte. Di giorno, in parte se la gode, in parte sgobba per due soldi, se questo non gli sembra assurdo. La sera, va a sorseggiare ifondi di caffè nella bettola vetrata il cui proprietario tiene la pistola in pugno.

* * *

L’uomo che vidi un giorno in questo deserto, allo Zifolo, era duro, magro e alto. Lo Zifolo si allunga davanti al cabaret: una galleria di ferro bianco arrugginito dalla pioggia che stride al vento, la sala ha quell’aspetto particolarmente inquietante dei mercati coperti di vetro, dove la luce entra da ogni parte, come se da ogni parte vi spiassero. Ma l’uomo non sembrava per niente infastidito. Si sentiva a suo agio, tra amici. Lo si vedeva dalla scioltezza dei gomiti e dal modo casuale di calzare il berretto. Aveva due occhi chiari, ma color assenzio fuso. Erano gli occhi pericolosi del malfattore, in cui l’intelligenza è come velata. Faceva scivolare le tre carte, con una velocità seducente: «Picche perde, fiori perde, cuore vince! – Chi sceglie cuori, che gioia, che onori! Chi prende fiori, niente milioni! Vince cuori, perde picche, perde fiori – puntate, signori!». La voce era trascinante, sorda, rauca, con dei picchi su certe sillabe, mentre gli occhi restavano impenetrabili. Perché quest’uomo conosceva il potere degli occhi per un giocatore, e i suoi erano di un verde senza fondo. Siccome nessuno abboccava, si azzittì a poco a poco e, brindando con me, prese a chiacchierare. «Oramai è passato il tempo di Fiferlin – mi disse -. Lui sì che era il re, il re del gioco delle tre carte. Con lui, ti andava sempre male. Tutti restavano lì, come allocchi, mentre girava e rigirava le carte. E il berretto sotto cui metteva le carte… è stato lui il primo a chiamarlo lingerie. Un bel nome, non trova? Noi altri, i suoi compari, eravamo i “panni”, e fingevamo di voler vedere la carta. È questa la “lingerie”: vedi la carta vincente, ma scegli quella sbagliata. Se gli uomini non fossero dei ladri, non esisterebbe il gioco delle tre carte (bonneteau). Tutti vogliono rubare quanto noi. Sarebbe onesto puntare a caso. Ma cosa fa il giocatore? Cerca di guardare da sotto, spia. Crede di avere la carta, la segue, io la faccio saltare. Dov’è? L’ingannato dice: “È là, nel mezzo”, ma si sbaglia: è saltata a sinistra. Allora il tipo si dice: “Mi ha infinocchiato; guarderò meglio”. Faccio un’orecchia alla carta, la curvo giusto un po’, quello che chiamiamo un “cornetto”, in fuori o in dentro. Il pollo che vuole ingannarmi si rasserena e pensa: “Che fesso! La carta è piegata. Questa la vinco io!”. Sì, ma passandomi le carte da una mano all’altra la raddrizzo e ne piego un’altra. Alla fine, è lui a essere fottuto! Questo trucco è il più difficile. Bisogna conoscere a fondo il gioco delle tre carte bene e avere dita veloci e abili. Prendiamo un tipo rigido che non ne vuole sapere più niente. Vedo che ha ancora una banconota in tasca. Gliela devo sfilare. E allora entra in gioco la mia squadra Senza la squadra non si lavora. Il compare si avvicina al tipo e attacca a parlare, più o meno così: “Signore, lei ha perso molto; anch’io ci ho appena rimesso, e parecchio. Questa gente è una massa di imbroglioni, ma li ho in pugno, ho appena segnato la carta con la cenere del sigaro. Il giocatore non ha visto niente. Possiamo puntare tranquillamente e recuperare il nostro denaro”. Il pesce ha ingoiato l’esca, perché in fondo il ladro è proprio lui. Torna, osserva la carta segnata, io faccio lo stupido. Ma mi sono sporcato il mignolo di cenere, pulisco la carta vincente e segno quella perdente. Non sono ad aver rubato, è l’altro che si immischia».

* * *

L’uomo si era animato poco alla volta con le sue spiegazione. Aveva l’aria convinta. Il suo disprezzo per l’umanità era profondo: e se n’era reso conto soltanto attraverso il gioco delle tre carte. Il vero ladro, nel gioco, non è il povero prestigiatore che fa saltare la carta, non è il morto di fame che al grido «Gli sbirri!» raccoglie il gioco alla bell’e meglio e se ne scappa preoccupato… Il ladro è il riccone che va a far spese, l’uomo di classe, e il gioco delle tre carte è nient’altro che una rivendicazione. Cominciano a derubarmi e allora restituisco il colpo. Ogni giocatore è un ladro e noi dobbiamo essere più ladri di lui. Niente di più giusto. «E ora che fa, durante l’inverno?» domandai. «Signore, l’inverno si crepa di fame – rispose l’uomo – non c’è niente da scroccare. Rubo un po’, quando posso. Lavoro per la mala». Si vantava di essere ladro con un certo orgoglio e, confessandomelo, nessun timore attraversava i suoi occhi impenetrabili. Lo si sarebbe detto uno sbruffone, ma lo tenevo a giusta distanza. Poco fa eravamo noi a essere chiamati ladri. Ma ora i ruoli si erano capovolti. Lo feci notare all’uomo, con delicatezza. Alzò le spalle, la chiarezza dei suoi occhi si offuscò un istante, poi mi lascio bruscamente.

Sono andato a far spese l’altro giorno. Quando il treno partì, entrarono tre signori nel vagone. Cinque minuti dopo, le tre carte apparvero sopra un foulard, sbucato da chissà dove. «Picche perde! Fiori perde! Cuori vince! Chi sceglie cuori, che gioie che onori! Chi prende fiori, niente denari…» . Poco a poco mi concentrai a seguire la carta, e puntai una moneta. E mentre seguivo istintivamente l’asso di cuori che passava e ripassava, il giocatore mi guardò di sbieco, con ironia. Riconobbi l’uomo dello Zifolo e diventai tutta rossa dalla vergogna. L’uomo aveva vinto la partita. Non avevo resistito alla psicologia della gente onesta. Rubavo.