L’8 maggio, settantesimo anniversario della capitolazione della Germania, il Bundestag ha affidato ad Heinrich August Winkler, autorevole storico socialdemocratico, il discorso commemorativo.

Le sue conclusioni sono nette: su una storia come quella della Germania tra il 1933 e il 1945 non si può segnare un punto finale. Né considerarla una parentesi di follia che interrompe semplicemente una storia, quella tedesca, partecipe e produttrice di principi di civiltà. L’ostilità delle élite tedesche, e di non piccola parte della cultura nazionale, nei confronti della democrazia precede e prepara la catastrofe della Repubblica di Weimar e l’ascesa di Hitler.

Dunque mai abbassare la guardia affidandosi alla distanza storica, mai rinunciare alla memoria, mai ridimensionare una colpa negandone il carattere collettivo e la diffusione capillare in ogni ganglio della società tedesca. Tanto più che la memoria delle atrocità subite non è affatto sopita non solo nel popolo ebraico, ma anche presso gran parte dei popoli d’Europa.

Far passare il passato che non passa non può insomma essere un atto unilaterale dei tedeschi. Il fastidio crescente per il peso dell’esperienza nazionalsocialista è qualcosa che essi non devono concedersi. Winkler cita l’ultimo scritto di Ernst Cassirer, morto esule in America poche settimane prima della fine della guerra, Il mito dello Stato.

Questo il passaggio che riporta:

«Nella politica viviamo sempre su un terreno vulcanico. Dobbiamo essere preparati a improvvise convulsioni ed eruzioni. In tutti i momenti critici della vita sociale, le forze razionali che si oppongono alla rinascita di antiche rappresentazioni mitiche non sono più sicure di sé, In quei momenti torna il tempo del mito. Poiché il mito non è stato davvero sconfitto e schiacciato. È nascosto nel buio e attende la sua ora e la sua opportunità. Quest’ora giunge, non appena le forze che tengono insieme la vita sociale degli uomini perdono, per una ragione o per l’altra, la loro forza e non sono più in grado di combattere le forze demoniache» (la traduzione è mia).

Fatto sta che il mito e le «forze demoniache» possono presentarsi nelle forme più diverse, sotto le bandiere della religione o addirittura quelle della democrazia o, ancora, essere evocate dall’astuzia di quella che si pretende essere la «Ragione». Come le guerre del nostro tempo e l’«odio democratico» che circola nelle società opulente stanno a dimostrare.

Ecco perché la celebrazione acritica dell’Occidente e l’espunzione del nazismo dalla sua storia conducono su strade pericolose.

Nonostante questo, Winkler si tiene alla larga da ogni critica storica dell’Occidente e del suo agire politico prima e dopo la seconda guerra mondiale, come l’arresto della «denazificazione» e il riciclaggio di buona parte del personale politico del terzo Reich nel clima dell’incipiente guerra fredda. Un argomento che, dopo la riunificazione, sarebbe venuto il momento di affrontare finalmente senza troppe reticenze, come è stato fatto, del resto, per gli ex funzionari della Rdt. Ma non per i fondatori della Bundesrepublik e delle sue dottrine economiche ordoliberiste, oggi imposte con una certa arroganza al resto d’Europa.

Una parola chiara contro l’«Europa tedesca» non avrebbe davvero guastato. Ma la preoccupazione dello storico socialdemocratico muove in tutt’altra direzione: la memoria del passato non deve paralizzare l’azione della Germania, ormai integrata senza residui nel fronte occidentale, frenarla nella partecipazione alle «guerre umanitarie» che quest’ultimo decida di intraprendere.

In altre parole, la memoria della catastrofe nazista non può tradursi in una più acuta sensibilità critica o morale, ma solo in una adesione incondizionata alla geopolitica occidentale. In questo alveo la Germania può serenamente tornare a considerarsi una potenza e perfino un modello per l’intera Europa.

Winkler situa il punto davvero finale del secondo conflitto mondiale al 21 novembre 1990, quando fu firmata la Charta di Parigi tra i 34 stati membri della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa che poneva fine alle controversie di confine, eleggeva la democrazia ad unica forma di organizzazione politica consentita in Europa e imponeva la risoluzione pacifica dei conflitti. La nuova epoca che questo trattato avrebbe dovuto inaugurare sarebbe stata però interrotta, secondo l’opinione di Winkler, dall’annessione russa della Crimea nel 2014.

Lo storico omette, tuttavia, alcuni accadimenti che, dopo il 1990, hanno sostanzialmente cambiato lo scenario in Europa: la dissoluzione dell’Unione sovietica, le guerre jugoslave e il modo tutt’altro che ineccepibile e indolore nel quale l’Occidente, e la rinata potenza tedesca, hanno agito in rapporto a questi eventi.

Già in quei frangenti cominciavano a sgretolarsi i nobili principi della Charta di Parigi e a prender forma le mire espansionistiche dell’ Occidente. L’evoluzione autoritaria della Russia postsovietica e la ripresa del nazionalismo russo non bastano certo a spiegare da soli il drammatico pasticcio in Ucraina (paese del resto non esente da colpe, come altre nazioni dell’ est europeo, nonché la stessa Italia, nella macelleria nazifascista degli anni ’40).

La preoccupazione che sottende tutto il discorso di Winkler è come dare spazio al «patriottismo tedesco» pur mantenendo la memoria di una colpa storica incancellabile.

Ma non è certo bandendo la parola «egemonia» e sostituendola con «particolare responsabilità» che si può edulcorare il peso preponderante della volontà tedesca nel Vecchio continente.

A conclusione della sua argomentazione lo storico cita un passo del discorso pronunciato dal presidente federale Gustav Heinemann il primo luglio del 1969, mentre prendeva il posto del suo predecessore, l’ex funzionario nazista Heirich Luebke: «Ci sono patrie difficili. La Germania è una di queste. Ma è la nostra patria».

Il nazionalismo tedesco non è morto e una diffusa opinione pubblica continua a considerare l’Europa come il contenitore tecnocratico di «patrie» a peso e merito variabili. Ma, del resto, tutte le «patrie» sono difficili perché nella parola stessa si celano il mito e le «forze demoniache» evocate da Cassirer.