Da dirigente del servizio d’ordine della Gauche prolétarienne, la formazione maoista che fu tra i gruppi più noti del Sessantotto francese, e per la quale sono transitati molti futuri protagonisti della cultura transalpina, da Serge July a Frédéric Fajardie fino a André Glucksmann, a grande interprete della letteratura contemporanea, più volte impegnato nella denuncia dell’orrore dei gulag staliniani, fino a voce critica e dissonante, anche a sinistra, che dopo la strage del Bataclan dalle pagine di Le Monde ha affermato «lo jihadismo è senza dubbio una malattia dell’Islam, ma intrattiene precisamente con questa religione il rapporto incontestabile che una malattia ha con il corpo che divora».
Ci sono molte storie diverse nella vita di Olivier Rolin, lo scrittore 70enne che più che romanziere si definisce come un «raccontatore di storie», talvolta inventate, altre reali. Da Tigre di carta (Clichy, 2014), il romanzo autobiografico con cui ha preso commiato dalla sua esperienza sessantottina fino a Il meteorologo (traduzione di Yasmina Melaouah, Bompiani, pp. 158, euro 17), che ripercorre la storia di Aleksej Feodos’evic Vangengejm, studioso moscovita del cielo e delle stagioni che negli anni Trenta fu deportato e infine fucilato, sulle isole Solovki ai limiti del Circolo Polare Artico (con cui nei giorni scorsi è stato tra i finalisti del Premio Bottari Lattes Grinzane 2017), Rolin ha tracciato un percorso narrativo esemplare, dove gli echi della storia e dei luoghi si intrecciano con gli interrogativi sul presente e le mille, irrisolte contraddizioni che albergano in ogni uomo.
Storie d’amore e cronache di viaggio, stilate in una lingua inventiva e curiosa, che definiscono una inedita geografia emotiva che muove da Port Sudan (Donzelli, 1995), passando per Meore (Passigli, 2002), Il cacciatore di leoni (Barbes, 2009), Baku, Ultimi giorni (Barbes, 2012) e Veracruz (La nave di Teseo, 2017)

Lei scrive che il mondo di Vangengejm, il protagonista del «Meteorologo», «era fatto di nuvole» e che «quando iniziò la conquista dello spazio sognò di addomesticare l’energia del sole e dei venti in nome del socialismo». Caduto in disgrazia, dal gulag avrebbe scritto alla figlia messaggi fitti di disegni di piante e erbe ed è a partire da questa corrispondenza che si è sviluppato il romanzo. È il suo modo di guardare alla Russia?
Questo paese mi affascina da tempo, l’ho visitato più volte, fin dai tempi in cui si chiamava ancora Unione Sovietica: Leningrado, Mosca, il Mar Nero, la Transiberiana, Vladivostok, la Kamchatka; per un periodo ho anche condotto un seminario all’università di Irkoutsk. Si tratta di luoghi dove la geografia sembra ricondurre inesorabilmente alla politica e alla storia, talvolta anche in modo contraddittorio. Proprio la Siberia è insieme sinonimo di vasti spazi liberi, di una natura pressoché selvaggia e, allo stesso tempo, di un terribile sistema di imprigionamento degli esseri umani, dei gulag. Così, già molti anni fa a Vladivostok, ho visitato il luogo dove sorgeva il campo di transito che i prigionieri e i deportati raggiungevano dopo settimane di viaggio in treno prima di essere avviati verso Magadan e i campi della Kolyma, nella Siberia orientale, descritti da Salamov nei suoi libri. E lì che fu sepolto in una fossa comune il poeta Ossip Mandelstam e dove oggi sorgono dei piccoli edifici di epoca kruscioviana e brezneviana. Sentivo che queste vicende mi riguardavano per il mio percorso di rivoluzionario da giovane e così ho continuato a cercare, finché non mi sono imbattuto nella vicenda di Vangengejm, nella corrispondenza avuta con la figlia e ho deciso di raccontare la sua storia.

Questa Russia è per lei ancora popolata «dai fantasmi della massima speranza profana mai esistita, e della distruzione di quella speranza, la Rivoluzione e la morte sinistra della Rivoluzione»?
Certamente. La voglia di libertà di un popolo è stata schiacciata dalla costruzione di uno stato poliziesco. Questo non significa che non rimanga aperto il quesito su quali esiti avrebbe dato il sogno rivoluzionario in condizioni diverse. Il punto non è però questo. Non so se Vangengejm stesso abbia creduto o meno fino alla fine all’infallibilità del partito e di Stalin, prima di essere fucilato. Sbarazzarsi di un’illusione, anche quando si teme che lo sia, è sempre qualcosa di difficile e doloroso. Quel che so è che molti intellettuali di sinistra avevano probabilmente dei dubbi su quanto accadeva in Urss, ma preferivano chiudere gli occhi. Sartre trovava addirittura i paesi dell’Est preferibili agli Stati Uniti. Quando l’Unione sovietica esisteva non si doveva parlare di tutto ciò e ora che non c’è più, molti pensano che non ci sia neppure bisogno di un lavoro retrospettivo sull’argomento. Personalmente, ritengo invece che questa storia mi riguardi ancora, al punto che la scoperta dei gulag è stata essenziale per la mia costruzione intellettuale e umana.

Se con la denuncia dei crimini staliniani si è chiusa la sua esperienza di militante, in seguito è stato poi attraverso la letteratura che, come ha spiegato più volte, ha scoperto la forza del dubbio, dell’incertezza…
Anche dell’ironia che nei miei anni maoisti quasi non conoscevo. Quando ho cominciato a scrivere, negli anni Ottanta, ero poco propenso a non prendermi sul serio. Del resto, non è forse un caso se alcuni dei miei compagni di allora, finita la stagione della Gauche prolétarienne sono passati ad una concezione religiosa o mistica dell’esistenza. Comunque, è vero, la letteratura è stata una scuola di scetticismo e ironia. Dostoevskij scriveva che una delle figure più belle della letteratura è Don Chisciotte «che è bello perché è allo stesso tempo ridicolo». I romanzi non giudicano, non vogliono imporre nulla. Barthes diceva che «il romanzo non è mai terrorista» e Flaubert sosteneva che «la furia di tirare le somme è una delle malattie più funeste e più sterili che appartengono all’umanità. I grandi geni e le opere più importanti non lo hanno fatto mai».

Tra i suoi primi libri c’è «Tigre di carta» (2002), nel quale un suo alter-ego ripercorre la propria militanza nella sinistra rivoluzionaria attraversando in macchina il boulevard périphérique di Parigi, insieme alla figlia di un compagno morto. Un romanzo che celebra, seppur con qualche ironia, il Sessantotto, al punto da essere considerato un simbolo della fine di quella stagione. Davvero non le manca nulla di allora?
A parte la giovinezza? Certo che mi manca quell’atmosfera di completa libertà che si respirava in quel momento. Quel desiderio di invenzione e scoperta e l’idea che il mondo sembrasse finalmente accessibile alla generosità, alla solidarietà. Ma naturalmente il 68 è stato anche violenza e repressione. Però credo che una delle chiavi per capire quel periodo sia soprattutto il pensare a una rivoluzione che non era ossessionata dalla ricerca del potere. Detto questo, detesto gli anniversari, compreso quello che si sta preparando per il Maggio francese. Quando ho scritto Tigre di carta ero mosso da un sentimento di prossimità, di simpatia di fronte a quegli anni e alle persone in carne e ossa che ho conosciuto e con cui ho vissuto all’epoca tante cose. Ma, per l’appunto, c’era già dell’ironia nel mio sguardo. Non sono diventato ostile agli ideali. Mi sembra che data la comprovata imperfezione del mondo, sia utile anche il saper guardare alla propria storia e a ciò cui si è creduto con una certa distanza e, nel caso, anche con un po’ di humour. Rispetto a quegli anni la penso così e non credo che questo significhi, come taluni compagni di un tempo ritengono, che io sia un individuo che ha rinnegato qualcosa.