Solo pochi mesi fa, un po’ meno della metà degli elettori americani non ha esitato ad eleggere alla Casa bianca un uomo che si è vantato apertamente di usare il suo potere per ottenere favori sessuali dalle donne. Non c’era un equivalente del mitico audio/confessione «just grab them by the pussy» a comprovare le accuse di molestia sessuale sul posto di lavoro sporte contro Bill O’Reilly, solo i 13 milioni di dollari spesi per metterle a tacere. Eppure l’uomo più potente delle cable news made in Usa è stato licenziato da Fox News, un canale che deve proprio a lui la sua immagine, nel giro di quindici giorni. Mentre era in visita al Vaticano dove – grazie all’intercezione del cardinale newyorkese Timothy Dolan – lui e famiglia hanno stretto la mano al papa.

Attraverso la sua fondazione, infatti, il conduttore tv dona spesso e generosamente a istituzioni cattoliche, tra cui una chiesa ispanica del Bronx in corso di restauro. «Un brav’uomo», così, in un’ intervista dall’ufficio ovale, Trump aveva definito O’Reilly, agli albori dello scandalo che ha messo fine alla sua carriera nemmeno un anno dopo la fine altrettanto ignominiosa di quella dell’uomo che lo aveva assunto, Roger Ailes. Rupert Murdoch, che li proteggeva entrambi, ha dato a Ailes una buonuscita di 40 milioni, O’Reilly dovrà accontentarsi del 25 previsti dal suo contratto annuale (che era stato rinnovato fino al 2020). Ma il gran capo della News Corp non ha potuto opporsi a un potere che si sta rivelando più inflessibile di quello della scheda elettorale, e cioè quello del portafoglio dei consumatori.

https://youtu.be/B1T_zLrgJns

Non è stata infatti un’improvvisa crisi di coscienza, e nemmeno la paura di una rappresaglia dell’audience (i rating di O’Reilly sono saliti dopo le rivelazioni sul sexual harassment), a convincere i Murdoch a liberarsi della loro star, bensì una rivolta degli inserzionisti, partita con la defezione di Mercedes Benz, che hanno disertato in massa il talk show delle otto di sera, il più seguito di Fox News.

Facilitata dalla rete e dalla natura aggregante e ad alto tasso emotivo dei social, la campagna contro O’Reilly si è propagata come un incendio dopo la pubblicazione, il primo aprile, di un lungo reportage del NYT sulle accuse di molestie sessuali messe a tacere con il libretto degli assegni. Ma Color of Change, il gruppo che l’ha organizzata, aveva già preso di mira O’Reilly in passato, per alcune sue dichiarazioni razziste, e ha condotto per due anni un’analoga campagna contro Glen Beck e contribuito a convincere i maggiori inserzionisti a starsene alla larga dalla Convention repubblicana di Cleveland.

Come #GrabYourWallett e #DeleteUber, Color of Change è un sintomo della resistenza anti-Trump (l’identificazione inevitabile con il presidente un’aggravante per O’Reilly) che sfrutta con successo la paura delle grosse corporation di vedere compromesso il loro brand presso le fasce di pubblico che stanno loro più a cuore, nelle aree metropolitane e nei corridoi blu della suburbia. Difficile, per adesso, capire come e quanto queste vittorie si possano tradurre sul piano pratico della politica.

Un nuovo video di Naomi Klein per The Intercept (https://theintercept.com/2017/04/12/how-to-jam-the-trump-brand/) , in cui l’autrice/attivista suggerisce divertenti modi di boicottare il brand presidenziale (incluso prenotando a vuoto i suoi resort o intasando le loro linee telefoniche), indica che questo è comunque un tasto importante da battere. Certo, una cosa è sicura: O’Reilly o meno la politica di Fox News rimarrà la stessa.

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