Vignette satiriche dove un Obama ghignante dà un calcio a Chuck Hagel e un hashtag dedicato: «L’Isis ha fatto cadere il segretario alla Difesa». Così lo Stato Islamico festeggia le dimissioni-licenziamento di Hagel, come fosse una propria vittoria.

I rapporti tra Hagel e Casa Bianca non sono mai stati in realtà rosei: l’obiettivo della presidenza Obama di limitare l’intervento militare esterno, evitare altre truppe sul terreno delle crisi globali e ridurre il budget del Pentagono è fallito per i continui cambi di strategia, spesso contradditori. Da parte sua il repubblicano moderato Hagel, seppur sfidando l’approccio guerrafondaio del partito e mantenendosi scettico sulla guerra in Iraq, in Medio Oriente, ha puntato ad una strategia di più ampio raggio: come il capo di Stato maggiore Dempsey, parlava da tempo – ufficiosamente – della necessità di inviare marines in Iraq e di rovesciare Assad in Siria come parte integrante della strategia anti-Isis.

Ma con le presidenziali alle porte e un indebolimento del Pentagono nel processo decisionale a favore di Cia e Casa Bianca, Hagel è diventato il capro espiatorio.

La strategia di Washington non cambierà: in Iraq sono già 3.100 i consiglieri militari, i raid aerei hanno raggiunto quota 6.600 e il sostegno alle milizie armate sul terreno prosegue.

Non solo a favore di peshmerga, opposizioni moderate siriane e esercito iracheno: la Casa Bianca sta valutando l’ipotesi di armare le tribù sunnite della regione di Anbar, cuore del conflitto tra Isis e Baghdad. Missili, granate e lanciarazzi per un valore di 24 milioni di dollari. C’è da chiedersi se il costante armamento di gruppi senza un controllo governativo trasformerà l’Iraq in una nuova Libia, un paese nel caos dove dalla caduta di Gheddafi a dettare legge sono milizie che si ritagliano porzioni di territorio e di potere politico.

Non cambia nemmeno il rapporto con gli alleati mediorientali.

L’incontro in Turchia tra il vice presidente Usa Biden e il premier Davutoglu doveva cancellare le discrepanze in merito alla Siria. Ma Biden se n’è andato senza aver ottenuto garanzie da una riluttante Ankara su una cooperazione militare concreta, che preveda l’uso della base turca di Incirlik e dello spazio aereo del paese.

Davutoglu ha reiterato l’impegno ad addestrare 2mila miliziani delle opposizioni siriane, ma non intende concedere niente senza prima aver ottenuto la testa di Assad. La posta in gioco è appetitosa: diventare leader dell’asse sunnita mediorientale. Per farlo Ankara si sta riavvicinando a Baghdad, che dopo la caduta di Saddam è finito sotto l’ala iraniana.

Davutoglu ha fatto visita nel fine settimana al premier iracheno al-Abadi: «La visita – spiega su al-Monitor l’analista Zulfikar Dogan – è il segno del cambiamento dei sentieri della diplomazia turca. Erdogan e Davutoglu non hanno mai abbandonato la passione per ‘l’asse sunnita’. Sono diverse le ragioni del cambiamento: la crescente sfera di influenza dell’Isis che ha la simpatia ufficiosa dell’Akp; le crescenti accuse di un sostegno turco; il ritorno degli Usa nella regione. Davutoglu lo ha detto: Baghdad ci è mancata. Una frase che riflette l’intenzione di radicare la cooperazione militare, politica e economica tra i due paesi».

Ognuno con la sua strategia, che pare ben poco efficace.

Il polso della situazione lo danno le interviste al The Guardian di membri dell’Esercito Libero Siriano, gruppo moderato anti-Assad: gruppi di ribelli – da al-Nusra a Anrar al-Sham fino all’Esercito dei Mujahideen – stanno stringendo alleanze tattiche con l’Isis e sempre più comunità civili si appoggiano agli islamisti, considerati gli unici in grado di garantire la sicurezza contro i raid aerei Usa. Assam Murad, combattente dell’Els, è chiaro: «Non combatteremo lo Stato Islamico dopo che la campagna Usa finirà. I civili sanno che la coalizione non è qui per salvarli da Assad e si rivolgono all’Isis».